Vincere il Premio è come scavare una buca sotto gli occhi del mondo
di PAOLO GIORDANO
L’uomo e la sua buca.
Un uomo vive in un quartiere tranquillo, ai margini della città. Una zona periferica, composta da villette indipendenti, eleganti ma niente affatto sfarzose. Ha un lavoro che lo soddisfa e gli permette una vita decorosa, una fidanzata di cui è quasi sicuramente innamorato, parenti disponibili, amici in quantità sufficiente ma non eccessiva.
Un giorno, decide di scavare una buca nel proprio giardino. Armato di vanga e carriola, si mette all’opera.
Il cortile affaccia sulla strada e in quel punto c’è sempre un gran viavai di gente: chi si dirige alla fermata del bus, chi torna a casa reggendo le borse della spesa, chi passeggia senza meta con il naso per aria. I primi giorni, nessuno fa caso all’uomo che scava. Alcuni gli gettano un’occhiata distratta, come si fa con i movimenti che involontariamente attraggono la nostra attenzione. Altri tirano dritto, con il loro passo svelto. Degli amici, passati di lì per caso, invitano l’uomo a unirsi a loro per una passeggiata e una birra al bar della piazzetta. Lui li ringrazia, ma declina l’invito. «Sarà per la prossima volta» dicono gli amici.
L’uomo lavora instancabilmente. La buca si fa sempre più profonda e, contemporaneamente, il mucchio di terra rimossa diviene più alto. Quando ha raggiunto ormai l’altezza della finestra, i passanti cominciano a rallentare, incuriositi. Qualcuno si avvicina alla staccionata del cortile. «Ehi, ma che cosa cerchi laggiù?» domanda. L’uomo, in tutta risposta, scrolla le spalle e sorride, poi affonda un’altra volta la vanga nel terreno soffice.
Lo scavo attrae sempre più persone. Ogni mattina, un gruppetto di curiosi si raduna sul marciapiede. Osservano l’uomo scavare, bisbigliando fra loro con aria seria e preoccupata. Talvolta, quando egli estrae un mucchio di terra più cospicuo del solito, partono degli applausi e dei fischi. Un ragazzo grida: «Ehi, amico. Gran bella buca la tua!». L’uomo— il viso macchiato di terra — ringrazia, alzando il braccio. Un suo collega si fa spazio tra la folla («Permesso! Permesso!»). Lo fissa dall’alto, scuotendo la testa: «Da settimane non fai altro che scavare. E il tuo lavoro? — gli punta l’indice contro, minaccioso — Stai facendo una stupidaggine». Una donna di mezza età s’intromette, per dargli manforte: «Ha ragione. Torna dentro, figliolo. Lascia perdere le buche. Se scavi ancora, rischi di danneggiare le fondamenta della tua bella casa. Crollerà». L’uomo li guarda. Si appoggia alla vanga, dubbioso. Riflette per alcuni secondi. Poi prosegue.
È ormai completamente nascosto, il cumulo raggiunge il davanzale del secondo piano. Un signore vestito di un abito scuro, con la barba bianca pareggiata poche ore prima, inveisce: «Io l’ho capito perché stai scavando, disgraziato! Ti ho smascherato. Tu cerchi il petrolio, là sotto».
Ci sono persone che ormai stazionano per gran parte della giornata di fronte al giardino. Qualcuno, addirittura, ha trovato il coraggio di scavalcare la staccionata ed entrare. Siede sul bordo del cratere, le gambe penzoloni, e osserva i capelli scarmigliati dell’uomo. «Serve una mano laggiù?» domanda. Ma l’uomo scuote il capo. Gli amici compaiono sempre più di rado. «Lasciamolo stare — dicono — ormai pensa solo alla sua buca». Uno di loro ha lanciato un aeroplanino di carta nel cortile, che è andato a conficcarsi nel terriccio molle. Sopra, a penna blu, c’è scritto: «Non ti riconosco più. Addio».
Ben presto la storia della buca supera i confini della tranquilla periferia. Sempre più gente arriva da lontano per osservare quell’opera bizzarra. Si presentano anche i genitori dell’uomo. Il padre si sporge sul baratro, la sua voce giunge all’uomo amplificata e reboante: «Vieni fuori di lì! Non è il tuo posto, quello». La madre trattiene a stento le lacrime: «Ti stanno guardando tutti». L’uomo sorride, per rassicurarli. Non si lascia suggestionare.
Pochi giorni dopo, ecco giungere anche la sua fidanzata. Sembra furiosa. «Avevo piantato i semi dei miei tulipani, qui — si lamenta — ora non cresceranno più. E con quella montagna di terra, non si vede più fuori dalla finestra. Devi ricoprire tutto. Subito! ». L’uomo ha un momento di esitazione, si asciuga il sudore, poi guarda la fidanzata, bellissima, stagliata contro il piccolo cerchio di cielo azzurro. Le soffia un bacio sabbioso dalla mano e continua.
Fuori dalla buca c’è sempre un gran baccano. Soltanto al crepuscolo la folla si disperde. Dalla sua stanza, l’uomo osserva la voragine e si sente soddisfatto. Una notte viene svegliato da un rumore, si affaccia alla finestra e scopre un gruppo di ragazzetti che si divertono a fare la pipì nella sua buca. Sghignazzano.
Lui non protesta. Dopo mesi di scavi, il cortile è completamente coperto di mucchi di terra. La gente non riesce più a spiare dentro. L’uomo vede i loro occhi avvicendarsi dietro le poche fessure rimaste. Si asciuga la fronte. Ha finito, gli pare. Scala il cumulo di terra più alto e si siede in cima. Tira una leggera brezza. La folla lo guarda dal marciapiede, ammirata, incuriosita, furiosa. Lui estrae dalla tasca un panino al prosciutto e lo addenta. Perlustra l’orizzonte. Cerca il posto adatto per scavare un’altra buca.
F.A.Q.
Mi è stato chiesto, qui, di raccontare il mio ultimo anno, il mio «anno Stregato». Ma io solo con grande fatica riesco a parlare di quanto riguarda il mio presente o il mio passato prossimo. Ciò di cui scrivo, se riguarda me, dev’essere rimasto per lungo tempo nell’angolo umido e nascosto di un sotterraneo, a macerare nella penombra, dimenticato. Parlare, oggi, degli ultimi dodici mesi della mia vita significa provare a rispondere, una volta per tutte, alle domande che così di frequente mi sono state poste, nei contesti più disparati — «Cos’ha significato per te vincere il Premio Strega? Come ti ha cambiato questo successo?» —, domande che finora ho eluso con abilità, mascherandomi dietro sorrisi incerti e affrontando il discorso alla larga, come se si trattasse di qualcun altro. Non solo perché detesto l’autoreferenzialità in ogni sua manifestazione, ma anche perché, più semplicemente, non conoscevo le risposte.
I due interrogativi, chiaramente collegati ma all’apparenza distinti, hanno assunto nella mia testa quasi il medesimo significato. Dalla scorsa estate in poi, infatti, ho gradualmente assimilato la nozione di successo alla mia vittoria del Premio Strega, come se la vertigine provata in quell’unica sera racchiudesse in sé una serie di sforzi compiuti e di traguardi conquistati lentamente, prima e dopo. È questo, credo, lo straordinario potere di sintesi che un riconoscimento deve avere. Insieme alla capacità di catalizzare su una manciata di opere, e infine su una in particolare, migliaia e migliaia di sguardi altrimenti divergenti verso le infinite possibili direzioni.
La soddisfazione e la pienezza (e la paura elettrizzante) che ne conseguono sono ovvie. Talmente ovvie da non riuscire a parlarne e men che meno a scriverne; talmente ovvie da imbarazzare e da costringermi a neutralizzarle ogni volta con un sorriso muto. Ciò che posso raccontare — ciò che la storiella dell’uomo e della buca tenta di raccontare — è cosa significa divenire improvvisamente oggetto di curiosità, di sospetto, di ammirazione e di preoccupazione; cosa comporta fare i conti con un’altrui percezione di te cambiata in modo repentino, per via di agenti esogeni e fuori controllo, sapersi ricollocare in un contesto mutato, cercare quel pallino rosso disegnato su una mappa ancora sconosciuta, che dice «tu (ora) sei qui».
Da bambino, mi divertivo spesso con un gioco di società chiamato «Il labirinto magico». Lo scopo era trovare l’uscita da un labirinto, dopo aver portato a termine una serie di missioni. La complicazione principale risiedeva nel fatto che i percorsi variavano di continuo: il labirinto, infatti, era formato da tessere mobili disposte su una plancia, e ogni giocatore, inserendo una nuova tessera e spingendo via, di conseguenza, quella all’estremità opposta, era in grado di cambiarne la topografia. Un semplice movimento era sufficiente per buttare all’aria tutte le strategie elaborate in silenzio: la strada risultava di colpo interdetta, oppure si diramavano da essa nuove vie, più agevoli.
Il Premio Strega — il successo che ne è conseguito — è stato per me come una tessera nuova spinta nel labirinto magico, che non ha soltanto scalzato un’altra tessera e mosso una fila, ma ha cambiato in un colpo l’intera configurazione.
Il successo inquina.
Esiste un impatto ambientale, innanzitutto. Non saprei quantificare con precisione l’eccedenza che questo ultimo anno ha comportato in termini delle mie emissioni di anidride carbonica. Ma scommetterei che siano almeno raddoppiate. Ci sono i continui spostamenti in aereo, i quintali di volantini cartacei stampati per gli eventi, le luci delle stanze d’albergo, che si accendono tutte insieme all’inserimento della carta e poi non c’è modo di trovarne gli interruttori; ci sono gli asciugamani, utilizzati una volta e poi subito lavati; i saponi, sempre inutilmente impacchettati nella plastica (mi sono spesso chiesto che cosa succeda ai saponi usati, se vengano fusi e riciclati oppure, semplicemente, gettati tra i rifiuti), le telefonate necessarie e quelle superflue, i pacchi postali contenenti tanti libri quanti è impossibile leggerne. Il successo inquina, senz’altro. E, in un periodo in cui si fanno campagne di sensibilizzazione per ricordare alla gente di non lasciare il televisore in stand-by per troppe ore di fila e di chiudere l’acqua mentre ci si spazzola i denti, anche questo ha un significato.
Il successo irrita.
Internet è un luogo di libertà sfrenata. Un contenitore slabbrato di infiniti pensieri, di idee brillanti che altrove non avrebbero spazio, ma anche di frustrazioni e risentimenti covati a lungo. Mi sono divertito — anzi, non tanto divertito — a costruire un istogramma che illustra la media mensile dei giudizi attribuiti al mio romanzo dagli utenti di Ibs (www.ibs.it è un sito dove si trovano tanti, ma proprio tanti libri, e tanti, ma proprio tanti commenti). Ne è risultato un andamento oscillante — come prevedibile —, ma curiosamente correlato a specifici eventi.
In sostanza, mano a mano che il mio libro si affermava come «un successo editoriale» e la mia frequentazione dei mezzi di comunicazione — giornali, radio, tv — si faceva più assidua, l’indice di gradimento diminuiva, a conferma del pregiudizio largamente diffuso, soprattutto fra i lettori medi e forti, che «ciò che piace a molti non può essere davvero buono». Non a caso, il primo minimo nella curva di gradimento compare in corrispondenza di maggio del 2008, giusto un paio di settimane dopo la mia prima apparizione televisiva.
Un altro minimo evidente corrisponde al luglio dello stesso anno. All’inizio del mese vincevo il Premio Strega. I commenti che accompagnano i voti spesso molto severi di quel periodo si fanno più espliciti e puntano il dito contro il Premio. I lettori più disillusi e sospettosi evidenziano, infatti, i segni di un sofisticato complotto, di una fregatura orchestrata dai potenti mezzi del marketing editoriale, ai danni loro e della letteratura in generale.
L’autunno e l’inverno vedono una rapida discesa, accentuata in novembre e dicembre, forse anche a causa di un secondo importante passaggio televisivo.
Poi, con l’anno nuovo, i giudizi pian piano risalgono, per assestarsi, verosimilmente, su un voto discreto (circa 3.5). È una mia congettura, ma si tratta, forse, della transizione a una generazione successiva di lettori, non più così influenzati dall’invadenza del successo e dall’irritazione che l’accompagna, ma onestamente affascinati o respinti dal romanzo.
Il successo allontana (ma solo alcuni).
Io prediligo i rapporti di affetto e di amicizia che necessitano continuamente di una ridefinizione. Altrimenti mi assopisco. Ma è un gusto personale. A molti non piace avvertire d’un tratto il vuoto sotto i piedi e dover annaspare per trovare nuovi punti di appoggio, diverse stabilità.
Il successo ha scardinato l’organizzazione preesistente del mio tempo e, in una certa misura, mi ha delocalizzato, portandomi per lunghi periodi via da casa. Se la lontananza è ossigeno fresco per ogni scrittore, è al tempo stesso, per ogni persona, carburante sottratto ai rapporti.
Non si tratta solo di questo. È anche una questione di velocità. C’è stata un’accelerazione improvvisa nella scansione dei miei giorni, uno scatto repentino degli eventi rispetto alla mia capacità di governarli. Immagino succeda qualcosa di simile con il matrimonio, con la nascita di un figlio, con l’acquisto del biglietto fortunato della lotteria.
Nello scatto, molte delle persone che ti vogliono bene si adeguano, azionano i muscoli e ti vengono dietro, cercando di pareggiare il tuo nuovo ritmo. Altre ci rinunciano, vuoi per il fiatone, vuoi perché probabilmente dovevi essere tu a trainarle per un braccio.
E alla fine è successo. Nonostante i miei tentativi di equilibrismo, nella corsa qualcosa è andato perduto. Circa un mese fa ho telefonato a un’amica per farle gli auguri di compleanno. Ero in ritardo di un giorno (ma questo mio ritardo si ripeteva ogni anno uguale, da circa dieci anni, tanto da essersi trasformato in una sorta di rituale dell’imperfezione. Mi consideravo, quindi, ancora in tempo). «Oh, ma chi si sente!» ha esordito lei. «Ti sei quasi ricordato del mio compleanno. Che grande onore!». Nel suo tono c’era qualcosa di più di una nuance di risentimento. Poi l’ha detto, chiaro e tondo: «D’altronde, ormai sei una star. Non hai più tempo. Se ho voglia di vederti, mi basta accendere la televisione». Il resto della telefonata non me lo ricordo.
Ma tu? Ma io?
Ambiente, persone sconosciute, persone conosciute e affezionate. Per cerchi concentrici sempre più stretti, infine, arrivo a me. E qualcuno di più ostinato, a questo punto, potrebbe protestare: «Va bene. Tutto ciò è chiaro. Ma qui dovevamo parlare del tuo ‘anno Stregato’. Insomma, questo successo cosa ha fatto a te ? Ti ha cambiato, sì o no?».
Intuisco che il verbo «cambiare», in un simile contesto, non è affatto neutro. È piuttosto un sinonimo di «rovinare», di «tradire», di «stravolgere». Così mi ritraggo, ancora una volta. Maschero il terrore con un sorriso imbarazzato. «Cambiato? Me come persona, come uomo, intendi? Io… sinceramente… non lo so». Ma il mio interlocutore insiste, cambia strategia. E forse, finalmente, azzecca il punto: «Sì, però… come ti senti?». Giusto. Come mi sento? Ci rifletto un secondo. «Bene. Libero».
07 giugno 2009
il corriere
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