La trasmissione su Raidue di lunedì scorso curata da Giovanni Minoli ha rivisitato la Rivolta del 1970 ma ha anche riaperto una “piaga”
Cosa è rimasto di quel “Pacchetto Colombo”?
Falliti i progetti del quinto Centro siderurgico e del Polo tessile, ma brucia ancora il “Sacco di Saline”
Tonio Licordari
Gli effetti della Rivolta di Reggio durano ancora. Lunedì scorso, su Raidue, Giovanni Minoli ha rivisitato, nel suo programma di attualità “La storia siamo noi”, le vicende dei famosi “Moti” del 1970-71 che hanno visto un’intera città e gran parte della provincia lottare per rivendicare il capoluogo di Regione assegnato, durante un vertice politico in un noto albergo della Capitale, a Catanzaro. Il sindaco dell’epoca, Piero Battaglia, fece il “Rapporto alla Città”chiamò a rapporto la città (5 luglio del 1970) per informare i reggini dell’intrigo. Il 14 successivo scoppiò la Rivolta il 14 che provocò morti, feriti, arresti, distruzioni: il governo dell’epoca si fece forte con il popolo di una città rimasta sola a rivendicare un proprio diritto. Arrivarono persino i “cingolati” per espugnare le “repubbliche” di Sbarre e Santa Caterina, i cui abitanti avevano eretto le barricate.
Acqua passata, ma non senza conseguenze. La trasmissione di Giovanni Minoli ha attraversato tutto quel periodo di rabbia e di lacrime che si è concluso con un compromesso imposto dal governo nazionale con la complicità dei politici calabresi che allora contavano. Il compromesso consisteva nel famigerato “Pacchetto Colombo” che assegnava: il capoluogo a Catanzaro, l’Università e la sede Rai a Cosenza, la sede del Consiglio regionale e le industrie (nell’era post industriale!) a Reggio. Si trattava di un vero e proprio diktat: o ti mangi questa finestra o ti butti dalla finestra. Solo due consiglieri regionali democristiani su cinque della provincia di Reggio accettarono questo progetto governativo (Giuseppe Nicolò e Ludovico Ligato) mentre gli altri tre (Lupoi, Intrieri e Iacopino) si opposero e vennero espulsi dal partito.
Minoli nella sua trasmissione ha alternato filmati d’epoca a testimonianze dirette di persone che hanno vissuto la Rivolta che vide protagonista sia l’intera destra (Ciccio Franco in primis, leader dei Boia chi molla, Renato Meduri, Natino Aloi) ma anche tanti altri reggini abbastanza noti come Amedeo Matacena (arrestato anche), il prof. Calafiore, l’ex comandante partigiano Alfredo Perna, Totò Dieni, l’industriale del caffè Demetrio Mauro e tanti altri. Che fosse una rivolta di popolo lo conferma il risultato elettorale delle politiche del 1972: Ciccio Franco, candidato al Senato per il Movimento sociale, sfiorò in città il 70 per cento, un voto plebiscitario. Solo pochi ancora non l’hanno capito. Uno fra questi è il novantenne comunista Alfredo Reicklin, che lunedì sera in tv ha dichiarato: «Non potevamo lasciare la città in mano ad una banda di avventurieri». Per Reicklin si è trattato di una rivolta fascista e come tale andava soffocata con tutti i mezzi. Con tutto il rispetto per l’uomo politico del Pci, è storicamente dimostrato che quella era e resta una rivolta di popolo. Il plebiscito per Ciccio Franco ne è una conferma.
Dal passato al presente. Tra gli intervistati anche il prof. Tonino Perna che, proprio nel finale della trasmissione, ha detto: «L’inganno fu quel “Pacchetto Colombo”, tanto che ancora a Reggio quando qualcuno ti dà un pacchetto si dice: spero che non sia come quello di Colombo». Ed è la pura verità. Andiamo a confrontare, a distanza di 40 anni, gli effetti di quel “pacchetto” che l’allora presidente del Consiglio, Emilio Colombo, mise in piedi per spegnere una rivolta di popolo, annunciando – come si è visto lunedì in tv – iniziative ancora più repressive se la città non avesse accettato quelle condizioni.
I contenuti del “pacchetto”: sede del Consiglio regionale a Reggio, le industrie consistenti nel Quinto Centro Siderurgico a Gioia Tauro, nel Polo tessile a San Gregorio, nella Liquichimica Biosentesi e nelle Officine grandi riparazioni Fs a Saline. In pratica Reggio può contare sulla sola sede del Consiglio regionale e sul porto di Gioia Tauro. Il quinto Centro siderurgico è rimasto una chimera. D’altro canto, proprio mentre veniva assegnato sulla carta questo sito industriale nella Piana, l’allora presidente dell’Iri (Petrilli) annunciava la crisi del quarto centro di Taranto.
Da allora sono passati quasi 40 anni. Vogliamo fare l’appello per vedere cosa è rimasto di quel “pacchetto” e quali sono le prospettive? Cominciamo da Gioia Tauro. Il Quinto Centro è tramontato subito, anzi dopo che è stata fatta una strage di oliveti e di agrumeti della Piana per realizzare le industrie. Tra il 1985 e il 1986 c’è stato un tentativo da parte dell’Enel e del governo dell’epoca a guida democristiana di realizzare una centrale a carbone. La reazione dei comuni e dei territori interessati è stata veemente. Ci fu un referendum popolare. Prevalse nettamente il no. Da quella protesta è nata la proposta: il porto commerciale più grande d’Europa. Oggi la Piana e l’intera Calabria possono contare su un porto nevralgico che però svolge solo attività di transhipment. L’indotto latita, anche se ci sono tentativi in corso per “spacchettare” in loco la merce. Serve (ma è davvero una chimera!) il collegamento ferroviario.
Una tribolazione continua il Polo tessile di San Gregorio. Da oltre 30 anni assistiamo al balletto di aziende del nord che arrivano, incassano i contributi regionali e governativi e poi spariscono. Questo Polo è famoso per crisi, licenziamenti, cassa integrazione. Un fallimento in piena regola, una storia davvero infinita di delusioni e di drammi familiari.
E concludiamo con Saline, il più terribile degli inganni. Da anni e anni andiamo parlando di “Sacco di Saline”. All’inizio degli anni Settanta hanno piantato le tende la Liquichimica Biosentesi nell’area vicina al pantano e le Officine riparazioni Fs a nord del paese. Si parlava di tre-quattro mila posti di lavoro. La storia è arcinota: la Liquichimica non è mai entrata in funzione perché il ministero della Sanità ha dichiarato cancerogene le bioproteine, dopo che (ecco il paradosso o la trama oscura) il ministero dell’Industria aveva dato l’autorizzazione a costruire lo stabilimento. Un altro fallimento. La Liquichimica vende all’Eni e l’Eni alla Sipi. Ma non è finita: la Sipi vende ad altri imprenditori e in particolare alla Sei che vorrebbe costruire una centrale a carbone. Ma il progetto non è gradito al territorio e, tranne qualche eccezione, nonostante i tentativi continui della Sei trova un ostacolo insormontabile nelle istituzioni e in particolare nella Regione Calabria, nel cui piano energetico votato all’unanimità non si prevede il carbone. Tra l’altro il governatore Loiero è intransigente e ha già annunciato l’alternativa del Fotovoltaico che dovrebbe nascere negli stabilimenti dell’ex Ogr ma con la possilità di espandersi. Il porto, attualmente insabbiato, nei piani della Regione e della Provincia dovrebbe diventare turistico. Le Ogr sono state soffocate da un accordo nazionale tra Gruppo Fs e sindacati. Insomma quel “pacchetto” è diventato cenere. Ora si vuole impedire che si trasformi in carbone.
gazzetta del sud 16 settembre 2006
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