di Giusva Branca – http://www.strill.it – “E ora che si fa?” disse un suo compagno al capitano appena scesi in campo all’Olimpico di Roma, a due ore dal fischio di inizio, guardando la curva dei tifosi della Reggina, già colma di 10.000 tifosi festanti per il solo fatto di esserci, per la prima volta in serie A al cospetto della Roma di Capello in casa sua.
“Semplice, si vince!” rispose Jack.
Quasi 11 anni sono passati da quello storico sbarco sulla Luna della Reggina, con tanto di vittoria, quel 19 marzo del 2000, per 2-0. Il capitano di quella storica annata, la prima in serie A, così come di quella precedente della prima, leggendaria promozione nella massima serie, era Simone Giacchetta, qualcosa di più di una bandiera in casa amaranto.
Con Alberto Gatto e Maurizio Poli “Jack” è certamente colui il quale ha lasciato maggiormente il segno in quasi 100 anni di vita del sodalizio reggino e non si tratta solo di una mera considerazione statistica (Gatto è colui il quale, nella storia, ha collezionato il maggior numero di presenze, 361, Giacchetta il secondo con 278 e Poli il terzo con 270); piuttosto è una questione di anima.
Quell’anima che ha sempre sostenuto il percorso di Simone Giacchetta, marchigiano di Fabriano, in gol con assist di Maradona al suo esordio in A e poi una vita in amaranto, in campo, per tornarci da DS poco meno di un paio di anni fa.
“Aò, io ve magno a tutt’e quattro!” disse Jack rialzandosi da terra dove era stato circondato da avversari minacciosi in una gara di serie B a metà anni ’90 e il suo carattere di lottatore non lo ha abbandonato nemmeno nel mezzo della prova più difficile che la vita gli abbia riservato.
Quando ancora non si capiva con esattezza che genere di male lo avesse colpito e più di qualche serio timore c’era, lui, al telefono, mentre da un lato strizzava l’occhio e dall’altro provava a tenere lontana la morfina ti ripeteva. “Io sono più forte, lo distruggo…”.
L’esito fu tranquillizzante per il futuro, ma regalò anche un orizzonte a medio termine duro, in salita, fatto di una rieducazione dolorosa e non brevissima. Jack non ha battuto ciglio nemmeno stavolta, nemmeno dopo essere stato colpito nel fisico, quello che ha sempre sostenuto la sua mente a caccia di sogni impossibili, di imprese che altri non avevano nemmeno il coraggio di immaginare.
Strill.it ha scelto fin qui il silenzio sulla sua malattia, anche quando questa, in qualche modo, era ormai diventata di dominio pubblico. Solo ora che il peggio è scongiurato e restano, come sempre nella storia di Jack, strade da percorrere lastricate di lavoro e sacrifici, lo vogliamo omaggiare, esattamente come ha fatto in queste settimane la comunità reggina.
Lo facciamo semplicemente riproponendo una sua intervista carica di tutta l’umanità di cui lui è capace, pubblicata da Laruffa, all’interno del volume “Idoli di carta – Quando il pallone si sgonfia comincia la vita: storie, passate e presenti, di 11 ex calciatori della Reggina – 2006”
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D. Jack, idoli veri o idoli di carta?
R. Gli idoli sono necessari, soprattutto nello sport; certo, poi arriva un momento in cui la vita riprende a scorrere secondo ritmi più normali. Tutto si ridimensiona, come è giusto che sia ed il salto è tanto più difficile quanto non si è riuscito a procedere, negli anni, ad un’opera ormai necessaria.
D. Cioè?
R. Parlo dell’umanizzazione del calciatore. Gli atleti è giusto che restino sul piedistallo, ma in qualche modo devono essere fatti tornare sulla terra. In realtà, però, è molto più complicato di quanto non si possa dire a parole. Il calciatore è sempre più al centro dello star system, in maniera talmente accentuata che pare impossibile interessarsi alle idee di un calciatore, al suo modo di pensare. Facci caso, giorno dopo giorno, si parla sempre meno anche delle stesse prestazioni sportive dei calciatori, travolti da veline, sponsor, galà e meeting. Sembra assurdo ma è così.
D. Eppure quando da ragazzino aspiravi a diventare calciatore non ti immaginavi nulla di tutto questo
R. Mah, guarda, io del mondo del calcio mi immaginavo tutto e niente. Non ne percepivo in alcun modo la dimensione. Per me i calciatori erano come i “supereroi”, mi chiedevo che vita facessero, leggevo tutto, ma proprio tutto di loro, anche i trafiletti insignificanti sui giornali. Ecco, diventare veramente un calciatore professionista, meno che meno un calciatore di serie A, non mi apparteneva, nemmeno a livello di sogno. Ho cominciato a pensarci da quando, giovanissimo, mi allenavo –e segnai pure un gol in campionato- col Napoli di Maradona
D. Ma di polvere da mangiare ne avevi ancora tanta; la Reggina era dietro l’angolo
R. Per me la Reggina è gioia e dolore. Semplicemente è stata tutto, diciamo meglio il 99,5% del mio percorso professionale. E nel tutto c’è il bene e c’è il male.
Sono arrivato alla Reggina da ragazzino; con la maglia amaranto ho conosciuto tante amarezze personali ma anche enormi soddisfazioni morali.
Le soddisfazioni personali si sono sostanziate in numerose rivincite dell’uomo Giacchetta. Tante persone che mi avevano insultato per anni, le stesse persone, dopo anni mi hanno chiesto scusa dicendomi che si erano sbagliate. Sono cose che mi hanno fatto crescere. In fondo quando arrivai a Reggio ero molto più ragazzo che calciatore
D. Ma la gente non crede che un calciatore possa vivere esperienze così forti in grado di segnarlo come uomo; in fin dei conti si tratta di privilegiati, no?
R. Non è così. La pressione è spaventosa, la gente ti dà tanto ma pretende tantissimo e non va dimenticato che spesso i calciatori, come dicevo, sono solo dei ragazzi. Ancora ricordo in maniera traumatica quando, nella stagione 1991/92, con la Reggina che faceva grande fatica in C1, una sera una delegazione di ultras venne a suonarmi al campanello di casa. Mi terrorizzai, feci appena in tempo a mettermi qualcosa addosso e scesi in strada, dove i tifosi mi dissero chiaramente che se non avessimo vinto la domenica successiva (mi pare che giocassimo contro il Barletta) avremmo fatto meglio a scomparire da Reggio. E per un ragazzino come me allora vacillare, barcollare, forse anche tremare fu immediato
D. E però gli anni di sacrifici sono passati –per qualcuno in fretta, per altri meno, ma sono passati. E, come per incanto, d’improvviso ecco la serie A
R. Tu lo sai, io ho un’immagine-simbolo, tutta la giornata a Torino. Ecco, lì ho toccato il non plus ultra della gratificazione. Ho avuto tutto il tempo di assaporare appieno la gioia di quel giorno. Stavamo andando in serie A e lo avevamo pienamente compreso. Ecco, lì ho rivisto come in un film tutti gli anni più difficili, a Reggio, gli anni della C ed inevitabilmente ho pensato: “Guarda dove sono, guarda, ce l’ho fatta!”. Per me, proprio per le valanghe di insulti che ho preso per anni a Reggio l’evento era ancora più importante. Non faccio difficoltà a dirti che l’avevo impostato come una sorta di rivincita personale. Molto personale. “Io non sono così scarso” –mi dicevo quel giorno a Torino- “Ce ne ho messo di tempo, però…”
D. E poi, dopo avere staccato il biglietto per il Paradiso, a Torino, secondo logica la ruota della sorte porta l’ingresso effettivo in Paradiso proprio a Torino, qualche mese dopo, in casa della Juventus
R. L’immagine che più mi è rimasta impressa e che, forse più di altre, simboleggia di dove eravamo arrivati riguarda la vigilia di Juventus-Reggina, nello stesso albergo di qualche mese prima, al Jolly Ligure e, come sempre, arrivò il momento di visionare la cassetta degli avversari. Ora, noi eravamo abituati a visionare la Cremonese ed il Treviso, il Cesena ed il Pescara; quando sul video sono arrivati Zidane, Del Piero e compagnia mi sono detto: “Ma noi domani giochiamo contro questi qua?” E’ stato come tornare bimbo, come quando la serie A era un mondo che non mi apparteneva.
Eppure l’indomani, sul campo, le cose andarono bene, anche perché l’emozione, le sensazioni ti avvolgono fino a quando inizia il riscaldamento. Poi, il bello del calcio è che, quando inizi a giocare viene fuori il tuo vero carattere. Ed io sono sempre stato molto sicuro di me stesso. Contro l’Ischia come contro la Juventus.
D. Presuntuoso?
R. Forse un po’, sai ci vuole anche quello. Ma la verità è che in campo per me gli avversari sono sempre stati avversari e basta. Mi spiego: per me ci sono gli avversari bravi, bravissimi e via così e rispetto a queste caratteristiche mi rapporto. Non c’è spazio per ricordare i nomi ed il palmares di chi hai di fronte. Gli anni duri mi hanno fatto crescere con calma, anche tecnicamente, cosicché io, anche, o forse soprattutto, di fronte ai campioni mi preparavo prima ripetendo mentalmente le varie procedure tecniche necessarie –proprio sul piano teorico- per contenere al meglio l’avversario. Il resto lo facevo – o provavo a farlo- con una concentrazione altissima, sempre ai massimi livelli. Ecco, arrivato in cima a 30 anni, controllavo perfettamente la mia testa, il mio livello di presenza a me stesso in ogni momento. E questo per un calciatore è fondamentale e non è così facile come potrebbe sembrare.
D. Basta questo per giocare contro Del Piero e Zidane?
R. Beh, la fiducia in te stesso, come ti dicevo prima, è basilare ed io, comunque mi ripetevo sempre: “Beh, ad ogni modo, se sono qui anch’io a giocare contro di loro un motivo ci sarà. Fin quassù non ci siamo arrivati per grazia ricevuta! “Io” –ripetevo a me stesso – “sono forte del mio sapere. Teorico e pratico”
D. Jack, ma cosa ti mancherà quando realizzerai che anche tu sei diventato da qualche mese un idolo di carta?
R. La quotidianità, senza alcun dubbio; come dicevo, grazie a Dio la Reggina non mi ha fatto mancare niente, nel bene e nel male ed io dalla società amaranto ho anche ricevuto ben 5 mesi fuori squadra e mi mancava tutto: l’allenamento, i palloni, lo spogliatoio. E, soprattutto, l’adrenalina.
Proprio poco tempo fa dicevo ad un mio giovane compagno di squadra del Torino, molto sensibile, che la tensione, l’adrenalina, lo stomaco in rivolta, sono l’essenza della nostra attività.
Noi, in definitiva, viviamo per emozionarci, in qualche maniera, e gli sportivi in particolare vivono per l’emozione. Ecco, ne sono certo: ciò che mi consuma da quasi 20 anni, che mi prende allo stomaco e mi altera la respirazione quando sarò un idolo di carta mi mancherà da morire.
In fin dei conti i calciatori provano ogni settimana il gusto della sfida, ma anche il gusto della rivincita dopo le sconfitte, così come la necessità di rimettersi necessariamente subito in gioco dopo le vittorie. E per provare queste cose le persone “normali” , invece, ci mettono una vita.
D. Quella vita che tu, fin qui, hai colorato di amaranto
R. Beh, essere il numero 2 della storia della Reggina, di oltre 90 anni di storia mi rende orgoglioso, eccome..anche se su 278 presenze, il bello è venuto in coda…ma va benissimo così…