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Archive for febbraio 2021

 

 

Fra l’aria
del meriggio
ch’era uno svenimento
le ho colto
arance e gelsomini.
(Giuseppe Ungaretti)

Ogni tanto mi sbizzarisco pure in cucina. Non amo la monotonia della solita routine, mi piace l’avventura e così improvviso spesso. E  oggi voglio mettere per iscritto il mio piatto per non dimenticare ingredienti e realizzazione, come spesso mi capita. Allora, oggi l’idea iniziale era di preparare pescestocco in insalata, lessato nel latte e condito con sale, limone, olio e prezzemolo. Strada facendo ho aggiunto una salsina da leccarsi i baffi. Si dà il caso che preparavo una spremuta di arance, che in questo periodo sono una delizia, e tenuto conto che mi  dispiaceva buttarla, ho raccolto in una ciotola  la polpa, alla quale ho aggiunto un kiwi del mio giardino, una mela Annurca  e una pera; tutti i frutti a pezzetti  con un poco di buccia d’arancia, solo la parte gialla, tritata. Quindi, in un padellino, dopo aver  soffritto uno spicchio d’aglio nell’oliio,  ho aggiunto il contenuto della ciotola che ho fatto andare sul fuoco e  innaffiato con un bicchiere di spremuta . Poco sale uvetta sultanina ammollata e zenzero per un tocco finale. Un piatto veloce e buono veramente.

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Per quanto da ormai molto tempo  cerchi di astrarmi dalla realtà in cui vivo, purtroppo questo è il mio presente e qui e ora devo convivere con la società attuale. Certamente mi riesce difficile e il desiderio di scappare , di andarmene il più lontano possibile dalla terra che mi ha generato è forte.  Secondo me, quello in cui vivo è il tempo dell’ignoranza legalizzata, perchè se conoscessimo la storia del passato eviteremmo di ripetere errori macroscopici.  Vivo da alcuni anni in una città impossibile, le cui strade sono impraticabili sia a piedi che in auto perchè piene di fosse e fossi   e puzzolenti per i rifiuti che le  inondano : le infiorate di Reggio Calabria, che sprigionano un fetore malsano. Adesso però non è di questo che voglio dire. Dopo i travagli politici che hanno visto il successo sul palcoscenico italiano di un cosiddetto comico ciarlatano scurrile, volgare, osceno, secondo me compromesso con realtà oscure, che con i suoi vaffa ha irretito e conquistatato la buonafede di milioni di persone stanche di un malessere generale e della malapolitica, l’Italia ha vissuto una pagina tristissima di amministrazione della res pubblica deleteria, approssimativa, disastrosa, malefica, funesta. Purtroppo, il diffondersi di un virus di origini sconosciute, combattuto in Italia nel modo peggiore possibile, sia dal punto di vista sanitario che sociale ed economico, ha costituito un alibi forte per un governo raffazzonato, incapace, dalle decisioni improvvide, spesso oscure , mentre la democrazia è ignorata. In molti paesi si sono svolte e si continuano a svolgere consultazioni elettorali , sia a scadenza regolare sia anticipatamente ,durante la diffusione del virus : in Italia è vietato da una consorteria di mercenari- massoni dai comportamenti spesso mafiosi, di concerto con direttive  vaticanensi, che entrano a gamba tesa nella vita politica italiana, con buona pace del principio “libera Chiesa in libero Stato”. Ad un certo punto, per una strategia, secondo me studiata a tavolino, arriva il Professor Draghi, salutato e osannato come il salvatore della patria. Considerato il suo vissuto ci si aspetta da lui una sterzata di rottura con il passato e con gli inciuci di palazzo.

Svetonio e altri storici del tempo narrano che Caligola, giovanissimo imperatore romano, parlasse con Giove. Sarà stato il Giove italiano a guidare dal Colle il presidente incaricato con il risultato che ci ritroviamo con un ministro degli esteri balbuziente che cammina su un tappeto di seta gialla, un ministro degli interni confuso mentre nel mediterraneo  continua una tratta di esseri umani criminale e, come se non bastasse, alla salute la conferma di un ministro che ha dimostrato che si può fare sempre peggio.

Si narra che Caligola volesse nominare senatore Incitatus, il suo cavallo preferito, per l’incapacità dei senatori con fattezze umane.

Certamente meglio il cavallo di Caligola invece di una Speranza fallita, aldilà di ogni pur ragionevole dubbio.

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In ospedale

Come davanti a una vetrina

Affolla la gente il marciapiede.

Nella macchina la barella è messa.

Alla guida l’infermiere si siede.

L’ambulanza, abilmente evitando

Veicoli, bighelloni, fanali,

Il caos notturno delle strade,

S’è tuffata nel buio coi fari.

Polizia, strade, facce dei passanti,

Tutto sotto i lampioni balenava.

Con la boccetta dell’ammoniaca

L’infermiera chinandosi vacillava.

Pioveva e nell’astanteria la gronda

Aveva un suono triste e vario,

Nel frattempo riga su riga

Scarabocchiavano il questionario.

L’hanno sistemato vicino all’entrata.

Non c’era altro posto in quel momento.

C’era puzzo di iodio tutt’intorno

E dalla strada infuriava il vento.

La finestra un po’ di giardino e di cielo

Mostrava in un quadrato.

Alla corsia, ai camici, al pavimento

Si abituava il nuovo arrivato.

Ma dalle domande dell’infermiera

Che scoteva la testa con compassione,

Egli capì subito che difficilmente

Sarebbe scampato alla situazione.

Poi con gratitudine guardò la finestra,

Dietro cui la parete mostrata

Era come una scintilla d’incendio

Dalla città tutta illuminata.

Là la barriera rosseggiava,

E nella luce della città un ontano

Mandava al malato di continuo

L’estremo saluto con un ramo.

“O Signore – pensava l’infermo –

I tuoi atti sono così perfetti,

La notte della morte e la città di notte,

Le pareti, la gente, i letti.

Ho preso una dose di sonnifero

E piango mordendo il fazzoletto.

O Dio, le lacrime di commozione

Mi celano il tuo volto benedetto.

Mi è dolce nella fioca luce

Che cade a stento sul mio cuscino,

Me stesso e la mia sorte riconoscere

Come un tuo dono divino.

Morendo in un letto d’ospedale,

Delle tue mani sento il calore.

Come tua creatura e come un anello

Nell’astuccio mi riponi, o Signore”.

In ogni cosa ho voglia di arrivare

In ogni cosa ho voglia di arrivare
sino alla sostanza.
Nel lavoro, cercando la mia strada,
nel tumulto del cuore.

 

Sino all’essenza dei giorni passati,
sino alla loro ragione,
sino ai motivi, sino alle radici,
sino al midollo.

 

Eternamente aggrappandomi al filo
dei destini, degli avvenimenti,
sentire, amare, vivere, pensare,
effettuare scoperte.

 

Oh, se mi fosse dato, se potessi
almeno in parte,
mi piacerebbe scrivere otto versi
sulle proprietà della passione.

 

Sulle trasgressioni, sui peccati,
sulle fughe, sugli inseguimenti,
sulle inavvertenze frettolose,
sui gomiti, sui palmi.

 

Dedurrei la sua legge,
il suo cominciamento,
dei suoi nomi verrei ripetendo
le lettere iniziali.

 

I miei versi sarebbero un giardino.
Con tutto il brivido delle nervature
vi fiorirebbero i tigli a spalliera,
in fila indiana, l’uno dietro l’altro.

 

Introdurrei nei versi la fragranza
delle rose, un alito di menta,
ed il fieno tagliato, i prati, i biodi,
gli schianti della tempesta.

 

Così Chopin immise in altri tempi
un vivente prodigio
di ville, di avelli, di parchi, di selve
nei propri studi.

 

Giuoco e martirio
del trionfo raggiunto,
corda incoccata
di un arco teso.

 

Oggi voglio onorare la memoria di un grande scrittore e poeta  di cultura raffinata con due poesie molto significative. Una più che mai attuale dedicata all’ospedale e l’altra che racconta con incisività il suo carattere e che descrive bene il mio, sempre alla ricerca della verità

 

 

 

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