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Archive for ottobre 2008

Quella sera, giovedi 30 ottobre 2008, seduto su una poltrona bianca del salotto buono di un Vespa piacevolmente brioso,rivolto con sprezzante aria di sussiego ai suoi dirimpettai sentenzia che c’è, esiste dunque, una verità morale al di sopra e aldilà di ogni fatto storico, e si tratta, naturalmente, della sua verità morale, indiscutibile e certa. Da rabbrividire : all’ anima dello storico, per di più docente universitario ! La trasmissione Porta a Porta prende spunto dal film “Il sangue dei vinti” tratto dall’ omonimo libro di Giampaolo Pansa, il quale si trova in studio insieme ad altri ospiti, tra cui Michele Placido ed Ernesto Galli della Loggia. Già Erodoto, il padre della storiografia sosteneva che ci sono diversi modi di interpretare una unica verità, difficile da raccontare con assoluta fedeltà ai fatti realmente accaduti. In questo senso, lo sforzo e il coraggio di Giampaolo Pansa sono encomiabili; è raro, infatti,incontrare una persona capace e determinata a ricercare la verità con onestà intellettuale, rigore scientifico e metodo analitico. Pansa, libero da pregiudizi e condizionamenti politici e sociali, riesce a scavare nei tragici giorni che datano la fine della seconda guerra mondiale e il periodo successivo caratterizzati in Italia da lotte fratricide intestine e dolorosissime. Mentre Placido e Galli Della Loggia discutono serenamente, Villari si ritiene depositario della verità assoluta, ostenta presunzione e arroganza , sbaglia clamorosamente e si giustifica implorando un lapsus. Fa una figura…anzi una figuraccia!…..Se l’ intenzione di Vespa era quella di mettere in difficoltà il docente universitario, c’è riuscito pienamente. Che lezione gli hanno dato quei tre ! La competenza e la serenità di giudizio di Galli della Loggia sono indiscusse, ma anche Placido che di mestiere fa l’ attore è stato incisivo e pertinente, accettando verità lampanti per lungo tempo oscurate, nascoste spesso volutamente, altre volte travisate. Il dibattito schiaccia inesorabilmente un maleducato Villari ed esalta la professionalità elegante e raffinata di Pansa. Evidentemente i Villari con la storia ne fanno una questione personale. In proposito mi viene alla memoria qualche ricordo . Ho avuto la fortuna di avere al liceo come insegnante di storia e filosofia un certo professore Paolino Costabile, alla cui scuola ho appreso l’ importanza della critica storica. Incline per natura alla ricerca della verità ad ogni costo ho fatto tesoro degli insegnamenti di Costabile per cercare il bello, il giusto e il vero sempre e dappertutto. All’ università, alla facoltà di scienze politiche il docente di storia adottava i testi di Rosario Villari, che non ho mai digerito, perchè spudoratamente di parte, bugiardi e densi di pregiudizi. Si tratta, quindi, di una malattia di famiglia. A me dispiace soltanto che i due fratelli storici Villari, Rosario e Lucio, siano calabresi della provincia di Reggio, anche perchè nei loro libri vengono soprattutto sacrificati, ignorati e maltrattati fatti e situazioni relativi proprio al nostro territorio. Sic transit gloria mundi !

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Diceva un giorno il pero
all’uva; «Oh, disgraziata,
tu morirai schiacciata!

L’uva rispose; «È vero:
ma all’uom che mi calpesta
fo poi girar la testa.

L. Carrier

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cadono le foglie

Cadono le foglie

Cadono già le foglie.Sono stanche.
Hanno visto tant’acqua e tanto sole.
Sbocciate con le tenere viole,
cadono prima delle nevi bianche.
La loro vita dura una stagione:
cadono a sciami,a sciami frusciando;
i bimbi le sparpagliano passando
e le raccolgono a farsene corona.
Il vento le trasporta in mulinello
e soffia e picchia con malinconia;
esse fan tutti gli anni questa via:
parton col brutto e tornano col bello.

…Tornano? Ogni cosa al mondo compare e poi sparisce,
la foglia che a marzo rinverdisce
non è più quella che oggi casca e muore.
Là nella macchia un vecchio boscaiolo
con un rastrello lieto le raduna,
saranno fuoco sotto il suo paiolo
saranno letto per la mucca bruna.


Rosalia Calleri

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Università, il business dei laureati precoci

Sono cresciuti in un anno del 57 per cento. La metà negli atenei di Siena e Chieti

Tasic, un serbo di 19 anni, è finito su tutti i giornali del mondo perché, partito per l’America per studiare, ha preso la laurea e pure il dottorato in otto giorni? Noi italiani, di geni, ne abbiamo a migliaia. O almeno così dicono i numeri, stupefacenti, di alcune università. Numeri che, da soli, rivelano più di mille dossier sul degrado del titolo di «dottore». I «laureati precoci», studenti straordinari che riescono a finire l’università in anticipo sul previsto, ci sono sempre stati. È l’accelerazione degli ultimi anni ad essere sbalorditiva. Soprattutto nei corsi di laurea triennali, dove i «precoci» tra il 2006 e il 2007, stando alla banca dati del ministero dell’Università, sono cresciuti del 57% arrivando ad essere 11.874: pari al 6,83% del totale. Tema: è mai possibile che un «dottore» su 14 vada veloce come Usain Bolt? C’è di più: stando al rapporto 2007 sull’università elaborato dal Cnvsu, il Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario, quasi la metà di tutti questi Usain Bolt, per la precisione il 46%, ha preso nel 2006 l’alloro in due soli atenei. Per capirci: in due hanno sfornato tanti «dottori» quanto tutti gli altri 92 messi insieme. Quali sono queste culle del sapere occidentale colpevolmente ignorate dalle classifiche internazionali come quella della Shanghai Jiao Tong University secondo cui il primo ateneo italiano nel 2008, La Sapienza di Roma, è al 146˚ posto e Padova al 189˚? Risposta ufficiale del Cnvsu: «Stiamo elaborando i dati aggiornati per la pubblicazione del rapporto 2008. Comunque i dati sui laureati sono pubblici e consultabili sul sito dell’ufficio statistica del Miur». Infatti la risposta c’è: le culle del sapere che sfornano più «precoci» sono l’Università di Siena (494ª nella classifica di Shanghai) e la «Gabriele D’Annunzio» di Chieti e Pescara, che non figura neppure tra le prime 500 del pianeta. Numeri alla mano, risulta che dall’ateneo abruzzese, che grazie al contenitore unico di un’omonima Fondazione presieduta dal rettore Franco Cuccurullo e finanziata da molte delle maggiori case farmaceutiche (Angelini, Kowa, Ingenix, Fournier, Astra Zeneca, Boheringer, Bristol- Myers…), conta su una università telematica parallela non meno generosa, sono usciti nel 2007 la bellezza di 5.718 studenti con laurea triennale. In maggioranza (53%) immatricolati, stando ai dati, nell’anno accademico 2005-2006 o dopo. Il che fa pensare che si siano laureati in due anni o addirittura in pochi mesi. Quanto all’ateneo di Siena, i precoci nel 2007 sono risultati 1.918 su un totale di 4.060 «triennali»: il 47,2%. La metà.

Ancora più sorprendente, tuttavia, è la quota di maschi: su 1.918 sono 1.897. Contro 21 femmine. Come mai? Con ogni probabilità perché alla fine del 2003 l’Università firmò una convenzione coi carabinieri che consentiva ai marescialli che avevano seguito il corso biennale interno di farsi riconoscere la bellezza di 124 «crediti formativi». Per raggiungere i 148 necessari ad ottenere la laurea triennale in Scienza dell’amministrazione, a quel punto, bastava presentare tre tesine da 8 crediti ciascuna. E il gioco era fatto. Ma facciamo un passo indietro. Tutto era nato quando, alla fine degli anni Novanta, il ministro Luigi Berlinguer, adeguando le norme a quelle europee, aveva introdotto la laurea triennale. Laurea alla portata di chi, avendo accumulato anni d’esperienza nel suo lavoro, poteva mettere a frutto questa sua professionalità grazie al riconoscimento di un certo numero di quei «crediti formativi» di cui dicevamo. Un’innovazione di per sé sensata. Ma rivelatasi presto, all’italiana, devastante. Colpa del peso che da noi viene dato nei concorsi pubblici, nelle graduatorie interne, nelle promozioni, non alle valutazioni sulle capacità professionali delle persone ma al «pezzo di carta», il cui valore legale non è mai stato (ahinoi!) abolito. Colpa del modo in cui molti atenei hanno interpretato l’autonomia gestionale. Colpa delle crescenti ristrettezze economiche, che hanno spinto alcune università a lanciarsi in una pazza corsa ad accumulare più iscritti possibili per avere più rette possibili e chiedere al governo più finanziamenti possibili. Va da sé che, in una giungla di questo genere, la gara ad accaparrarsi il maggior numero di studenti è passata attraverso l’offerta di convenzioni generosissime con grandi gruppi di persone unite da una divisa o da un Ordine professionale, un’associazione o un sindacato. Dai vigili del fuoco ai giornalisti, dai finanzieri agli iscritti alla Uil. E va da sé che, per spuntarla, c’è chi era arrivato a sbandierare «occasioni d’oro, siore e siore, occasioni irripetibili». Come appunto quei 124 crediti su 148 necessari alla laurea, annullati solo dopo lo scoppio di roventi polemiche. Un andazzo pazzesco, interrotto solo nel maggio 2007 da Fabio Mussi («Mai più di 60 crediti: mai più!») quando ormai buona parte dei buoi era già scappata dalle stalle. Peggio. Perfino dopo quell’argine eretto dal predecessore della Gelmini, c’è chi ha tirato diritto. Come la «Kore» di Enna che, nonostante il provvedimento mussiano prevedesse che il taglio dei crediti doveva essere applicato tassativamente dall’anno accademico 2006-2007, ha pubblicato sul suo sito internet il seguente avviso: «Si comunica che, a seguito della disposizione del ministro Mussi, l’Università di Enna ha deciso di procedere alla riformulazione delle convenzioni» ma «facendo salvi i diritti acquisiti da coloro che vi abbiano fatto esplicito riferimento, sia in sede di immatricolazione che in sede di iscrizione a corsi singoli, nell’ambito dell’anno accademico 2006-2007».

Bene: sapete quanti studenti risultano aver preso la laurea triennale nell’ateneo siciliano in meno di due anni grazie ad accordi come quello con i poliziotti (76 crediti riconosciuti agli agenti, 106 ai sovrintendenti e addirittura 127 agli ispettori) che volevano diventare dottori in «Mediazione culturale e cooperazione euromediterranea»? Una marea: il 79%. Una percentuale superiore perfino a quella della Libera università degli Studi San Pio V di Roma: 645 precoci su 886, pari al 73%. E inferiore solo a quella della Tel.M.A., l’università telematica legata al Formez, l’ente di formazione che dipende dal Dipartimento della funzione pubblica: 428 «precoci» su 468 laureati. Vale a dire il 91,4%. Che senso ha regalare le lauree così, a chi ha l’unico merito di essere iscritto alla Cisl o di lavorare all’Aci? È una domanda ustionante, da girare a tutti coloro che hanno governato questo Paese. Tutti. E che certo non può essere liquidata buttando tutto nel calderone degli errori della sinistra, come ha fatto l’altro ieri Mariastella Gelmini dicendo che di tutte le magagne universitarie «non ha certo colpa il governo Berlusconi che, anzi, è il primo governo che vuol mettere ordine». Sicura? Certo, non c’era lei l’altra volta alla guida del ministero. Ma la magica moltiplicazione delle università (soprattutto telematiche), la corsa alle convenzioni più assurde e il diluvio di «lauree sprint», lo dicono i numeri e le date, è avvenuta anche se non soprattutto negli anni berlusconiani dal 2001 al 2006. E pretendere oggi una delega in bianco perché «non si disturba il manovratore», è forse un po’ troppo. O no?

Sergio Rizzo
Gian Antonio Stella
26 ottobre 2008

Siamo tuttu indignati a leggere queste denunzie e le tante altre del settore scuola, ma poi tuteliamo il sistema distorto vigente rifiutando qualsiasi tentativo di cambiamento

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PRIGIONIERI DEL PASSATO

di Ernesto Galli della Loggia

Un Paese fermo, consegnato all’immobilità: ecco come appare oggi l’Italia. Non già nella cronaca convulsa del giorno per giorno, nell’agitazione della lotta politica, nei movimenti sempre imprevedibili di una società composita, frammentata e priva di inquadramenti istituzionali forti. Ma un Paese fermo perché anche nelle sue élites prigioniero dei luoghi comuni, incapace di pensare e di fare cose nuove in modo nuovo, di sciogliere i nodi che da tanto tempo ostacolano il suo cammino.

Da trent’anni ci portiamo sulle spalle un debito pubblico smisurato che non riusciamo a diminuire neppure di tanto. Da decenni dobbiamo riformare la scuola, la Rai, la sanità, le pensioni, la magistratura, la legge sulla cittadinanza, e siamo sempre lì a discutere come farlo. Da decenni dobbiamo costruire la Pedemontana, le prigioni che mancano, il sistema degli acquedotti che fa acqua, il ponte sullo Stretto, le metropolitane nelle città, la Salerno- Reggio Calabria, la Tav del corridoio 5, e non so più cos’altro. Ma non lo facciamo o lo facciamo con una lentezza esasperante. Nel tempo che gli altri cambiano il volto di una città, costruiscono una biblioteca gigantesca, un museo straordinario, noi sì e no mettiamo a punto un progetto di massima sul quale avviare discussioni senza fine.

Perché in Italia le cose vanno così? I motivi sono mille ma alla fine sono tutti riconducibili a una sensazione precisa: siamo una società prigioniera del passato. Con lo sguardo perennemente rivolto all’indietro, che ama crogiolarsi sempre negli stessi discorsi, nelle stesse contrapposizioni, nelle stesse dispute, assistere sempre allo spettacolo degli stessi gesti e degli stessi attori. Da noi il passato non diviene mai inutile o inutilizzabile. Non si butta via mai niente. Ogni cosa è potenzialmente per sempre: ogni ruolo, ogni carica è a vita, e pure se siamo reduci da qualcosa lo siamo comunque in servizio permanente effettivo. In un’atmosfera di soffocante ripetitività siamo sempre spinti a conservare o a replicare tutto: idee, appuntamenti stagionali, parole d’ordine, comizi, titoli di giornali.
Ci domina una sorta di freudiana ritenzione anale infantile: paurosi di abbandonarci alla libertà creativa e innovativa dell’età adulta, a staccarci dalla comodità del già noto, solo noi, nella nostra vita pubblica, abbiamo inventato la figura oracolare e un po’ ridicola del «padre della patria» con obbligo di universale reverenza. È, il nostro, l’immobilismo di un Paese abbarbicato a ciò che ha vissuto perché non riesce a credere più nel proprio futuro, di un Paese che sotto la vernice di un’eterna propensione alla rissa in realtà fugge come la peste ogni rottura e conflitto veri, e desidera solo continuità. Che come un vecchio Narciso incartapecorito anela solo a rispecchiarsi nel già visto.

Un Paese, come c’informa La Stampa di qualche giorno fa, dove Guido Viale, antico giovane di un remoto «anno dei portenti », si compiace — invece di averne orrore — che oggi «le occupazioni delle scuole si fanno assieme ai genitori», e che «questi ragazzi lottano accanto ai professori e ai presidi». Già, «accanto ai professori e ai presidi»: che lotte devono essere! E comunque è con queste, buono a sapersi, che l’Italia si allena ai duri cimenti dell’avvenire.

25 ottobre 2008

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Giovedi sera ho guardato Porta a Porta, ma sinceramente è preferibile Uomini e donne di Maria de Filippi. Nel salotto buono di Vespa sempre i soliti ospiti : una logorroica Finocchiaro , elegantissima e preoccupata di mettere in mostra con malcelata nonchalance gli orecchini diversi e molto chic , si esprime in maniera pesantissima autorefernzialmente :Dirimpetto una altrettanto elegante signora rappresentante della Confindustria con una fila di orecchini altrettanto chic. Una terza ospite in rappresentanza della CGIL che non sa dire nulla della scuola, l’ argomento di cui trattasi. In collegamento dall’ esterno si fa parlare una ragazza suffraggetta che non aveva capito nulla del servizio, di una chiarezza lapalissiana, di Andrea Romano e che la Finocchiaro stessa è costretta suo malgrado e non senza disagio a correggere. Che squallore! Che monotonia. Non capisco cosa ci facessero in questo contesto Giordano e Morfeo, due giornalisti seri. Ormai Vespa non punge più, è piatto e monotono. A seguire, venerdì sera ho visto Matrix con un Mentana vivace e dinamico che riesce a stimolare un dibattito vero e interessante. L’ argomento è sempre lo stesso, quello del giono, la scuola, dunque, ma ” est modus in rebus, certi sunt fines” , dalla discussione di canale 5 , a parte il solito graffiante Feltri, anche Floris riesce meno antipatico del solito e i due studenti e il docente riescono a trasmettere realmente le difficoltà di un settore, quello scolastico appunto, ormai in coma irreversibile.

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Le radici affini di fascismo e comunismo: parla Domenico Settembrini.

«Il Duce non si ispirava a Franco ma a Lenin. Era antiborghese, anticapitalista e rivoluzionario». «Tutta la cultura politica italiana ha avversato il pluralismo. E oggi gli eredi delle due ideologie hanno lo stesso disagio ad accettare l’alternanza».

[Da “Avvenire”, 31 agosto 2001] Maurizio Blondet

Mussolini disse nel 1921: «Conosco i comunisti. Li conosco bene perché parte di loro sono miei figli spirituali». Ed era vero. Tanto che Gramsci, almeno fino alla svolta di Mussolini dal neutralismo all’interventismo, lo chiamava «nostro capo».
Scritte nero su bianco dallo storico Domenico Settembrini nel suo saggio Fascismo controrivoluzione imperfetta, frasi come quelle – rivelanti l’affinità in radice di fascismo e comunismo – fecero sì che la cultura del Pci criminalizzasse il libro. Il marxista Paolo Alatri lo accusò di «restituire una patente di nobiltà» al fascismo. Era il 1978, la cultura comunista era assolutamente egemone in Italia, e il libro di Settembrini anticipava troppo le scoperte di De Felice, Nolte e Zeev Sternhell sulle radici marxiste del fascismo. «Mai aver ragione in anticipo», sorride ora Settembrini: «Non solo i comunisti mi stroncarono, ma De Felice finì per non recensire il mio libro, perché la sua idea, allora, era che Mussolini fosse stato un marxista d’accatto. Io invece ricostruivo la vicenda marxista di Mussolini, e dimostravo che, tra i politici di allora, pochi conoscevano Marx bene come lui».
Oggi il suo Fascismo controrivoluzione imperfetta viene ripubblicato (Edizioni Seam, pagine 500, lire 45.000): e ancora stupisce leggere fino a che punto Mussolini volle essere marxista.

«Intendiamoci – avverte Settembrini -, era un politico, cioè un pratico. Per giungere al potere fece tutti i compromessi necessari: con la monarchia, con il capitale, con la Chiesa. Ma il fascismo ufficiale e conservatore che lui stesso ha creato, non gli piace. Non vuole diventare un Franco, sogna di essere un Lenin. Dice frasi come: “Il corporativismo, se è serio, è socialismo”. Si affanna a costruire, nella gioventù, l’”uomo nuovo”. E difatti molti dei giovani fascisti che hanno creduto con sincerità, passano al Pci, spesso venendo dal combattentismo repubblichino».

È vero: molti fascisti repubblichini diventano comunisti.

«Uno dei più coerenti, Camillo Pelizzi, riconosce a Mussolini un merito agghiacciante: “aver capito”, dice Pelizzi, “che per cambiare il mondo ci vogliono milioni di morti”. Il sogno totalitario di Lenin».

Insomma Mussolini avrebbe voluto essere Lenin?

«Un momento. Al duce va riconosciuto il merito di essere vissuto in questa contraddizione: resta anticapitalista, è uno dei pochissimi che segue attentamente le riviste marxiste e l’esperimento collettivista di Lenin in Urss; proprio per questo, perché sa bene quale disastro è il comunismo in Russia, vive nella ricerca della “terza via”, per evitare i milioni di morti».

Oggi, le pare che l’idea che il fascismo fu un fenomeno rivoluzionario, anticapitalista e antiborghese come il comunismo sia passata nel senso comune?

«Non direi proprio. E basta guardare la condizione dei due partiti che furono eredi di fascismo e comunismo, ed oggi hanno cambiato panni. An, l’ex Msi, oggi è al governo, i Ds, ex Pci, oggi all’opposizione. Ma guardi come entrambi si somigliano nel comune disagio ad accettare fino in fondo la democrazia liberale. Gli uni devono farsi prestare l’identità da Berlusconi; gli altri non sanno decidersi tra socialdemocrazia e sovversivismo anti-istituzionale, a rimorchio degli antiglobal, e non riescono ad accettare il concetto dell’alternanza».

Questo che cosa significa, secondo lei?

«Che tutta la cultura italiana, fascista o comunista, è stata rivoluzionaria. E questa eredità non è mai stata superata».

Non esagera?

«No, e veda l’esempio della Spagna: ha avuto una guerra civile enormemente più sanguinosa della nostra, soffre ancora oggi di un terrorismo basco molto più grave di quello delle Brigate Rosse, eppure è diventata una normale democrazia dell’alternanza. L’Italia invece no».

Perché?

«Perché appunto gli intellettuali italiani, la nostra cultura politica, è stata sempre all’opposizione rispetto a liberalismo e capitalismo. Veda Norberto Bobbio: sacralizzato come “guru” del liberalismo progressista, esempio di antifascismo moralistico. S’è scoperto che scriveva lettere a Mussolini: insomma stava a guardare, era opportunista rispetto al fascismo; se il fascismo avesse vinto, lui ci si sarebbe adattato».

Errori giovanili, si dice.

“Ben altro che errori. Per decenni, i missini hanno esibito come merito il fatto di aver combattuto i comunisti. Quanto al Pci, s’è identificato nel merito di aver “vinto il fascismo” inteso come guardia armata del Capitale, e poi la Dc “borghese”».

Intende che nessuno dei due ha mai vantato d’aver lottato per il pluralismo? Ma non c’erano solo quei due sulla scena italiana, c’è stata anche la Dc.

«Ma anche nella Dc c’è l’elemento statalista, antiborghese. Quando s’è dissolta la Balena Bianca, la sinistra Dc ha rivelato tutta questa avversione al liberalismo, all’alternanza, al pluralismo. E guardi gli antiglobal».

Anche loro avversi al capitalismo, ma non comunisti.

«Però sono gli eredi ultimi di Togliatti, senza saperlo. Togliatti ha avuto la capacità di incanalare nel suo Pci tutto il sovversivismo della cultura politica italiana, che alimentava anche il fascismo. Togliatti è quello che chiama i fascisti “fratelli in camicia nera”. Per Togliatti la parola “sovversivo” era una parola positiva. Il sovversivo, per lui, è il rivoluzionario. Il sovversivismo italiano poi riemerge nel ’68, e anche oggi in certe punte antiglobal».

Conclusione?

«Il vuoto di senso che attanaglia la politica italiana, deriva dal fatto che le élites intellettuali non hanno mai fatto l’esame di coscienza fino in fondo. Per i comunisti, o ex, è tragico. Togliatti aveva fatto un uso così sapiente del mito sovietico, che questo mito era diventato per milioni di italiani la fede, un surrogato della fede cattolica. Ecco perché a sinistra c’è tanto vuoto di senso: è caduta la religione. Ad Occhetto non hanno ancora perdonato di aver liquidato il passato togliattiano. Ma non sono solo i Ds a non aver fatto l’autocritica. Nemmeno i postfascisti, nemmeno i cattolici. Nessuno, voglio dire, vuol riconoscere l’elemento comune, italianissimo, che li unisce al fascismo rivoluzionario, marxista di Mussolini. Non possono riconoscere questa comune identità, e continuano a proiettare sull’avversario, in fondo, l’accusa di “aver tradito la rivoluzione”. È questo che rende difficile l’alternanza, in Italia».

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Brutta, sporca, scura scura,

dentro il mar non fa figura.

Ma se è pronta da mangiare,

è davvero un altro affare!

Delle cozze gratinate

ne puoi fare scorpacciate,

La ricetta più apprezzata

è la cozza all’impepata.

Assolute, o all’occasione

con un poco di limone,

queste cozze sono egregie.

Sono come le ciliegie:

una sola ti si strozza,

ma da cozza nasce cozza.

Mangiar cozze non fa male,

se non superi il quintale!

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Considerando l’ analisi testuale come esercizio critico letterario di un testo anche se non so bene quando sia stato introdotta la sua applicazione nella scuola italiana, non sono un addetto tra l’ altro, ho sempre ritenuto che sia uno studio inutile e dannoso, che offende il pensiero dell’ autore. A mio avviso, infatti, un poeta o uno scrittore scrive per esprimere un bisogno personale,intimo,più o meno profondo che riguarda il suo vissuto relativo al momento in cui si esprime ; il lettore, a sua volta, ne ha una comprensione relativa al momento in cui legge.Nessuno, quindi, dovrebbe arrogarsi il diritto di vivisezionare lo scritto di un’ altra persona. La nostra scuola,ormai da diversi decenni, obbliga gli studenti ad imparare critiche di altri, gratificando chi riesce a ripeterne a pappardella il pensiero , penalizzando chi osa esprimere un parere personale; e tutto ciò a scapito del testo, che viene trascurato.E’ la diffusione del pensiero di massa omogeneo e uniforme. A confortare la mia convinzione il parere di una autorità in campo letterario come Enzensberger che ho l’ onore e il piacere di riportare con questo post.

Enzensberger: “La poesia? Massacrata dai professori”

Lunedi 23 giugno 2008

di Paolo Bianchi

http://www.ilgiornale.it/att_jpg.php?ID=365512&X=198&Y=149

Parma – Nel film Caro diario di Nanni Moretti c’è un paradigmatico intellettuale di sinistra che non guarda la televisione, però conosce tutta l’opera di Hans Magnus Enzensberger. Finirà per convertirsi a Beautiful. Il poeta, saggista, editore e polemista tedesco (bavarese) nato nel 1929 a Kaufbeuren e presto trasferitosi a Norimberga, ha riso molto di questa citazione. Normale, per uno che in tutta la vita ha fatto dell’anticonformismo la sua bandiera, insofferente verso la retorica ortodossa, verso i manifesti e verso le diatribe accademiche. Enzensberger è oggi un allegro monumento vivente della cultura europea. Si diverte ad alimentare il mito della propria suscettibilità. È calato da Innsbruck, in auto, come ospite d’onore del «ParmaPoesia Festival» (che chiude domani una ben riuscita quarta edizione). Ha corrugato la fronte quando in albergo gli hanno chiesto la carta d’identità. Ha rifiutato i primi approcci dei giornalisti, rei di avergli rivolto, in un recente passato, «domande superficiali e noiose». Poi si è divertito a incontrare il pubblico, prima insieme al critico e saggista Alfonso Berardinelli (con il quale in passato ha scritto il volume Che noia la poesia) e poi con il collega poeta americano Stanley Moss, in una serie di letture a cura di Nicola Crocetti e Giorgio Gennari in collaborazione con Teatro Festival Parma.

Tra il chiostro della casa della Musica e quello di Sant’Uldarico si attraversa a piedi il centro storico della città emiliana, lungo il cardo di strada Farini. Una passeggiata che diventa pretesto per chiacchierare un po’. Il poeta è di buon umore e sfoggia un italiano corretto e tagliente. Alto, cappello di paglia, completo verde chiaro, sguardo furbesco e penetrante, sembra contento del bagno di folla e del fatto che riceverà la «cittadinanza poetica onoraria».

Lei sembra un ottimo testimonial della poesia come espressione di libertà creativa, non di costrizione.
«A scuola non si chiede agli studenti di leggere la poesia, ma di interpretarla. Si devono scrivere saggi sulle opere, senza neanche poter scegliere. E qui inizia il disastro. I professori chiedono agli allievi di indovinare quello che loro sono convinti l’autore abbia detto. Da questo dipende il voto. Se il professore è di sinistra, lo studente deve fare l’engagé; se è reazionario, deve puntare sull’estetica. Il pregiudizio è che il pedagogo è sempre più intelligente del bambino. Per la stessa ragione, si soffre anche con la matematica…».

In Italia, fino a pochi anni fa, bisognava trovare a tutti i costi geniale il teatro di Bertolt Brecht e chiunque lo interpretasse. Che ne pensa?
«Anche in Germania. Io trovo il Brecht poeta molto superiore al drammaturgo».

Salutando il pubblico, ha detto: «Siamo la bella minoranza che s’interessa alla poesia». La poesia è un genere per pochi?
«Lo diventa se viene insegnata come fosse una tortura».

I poeti sono degli isolati?
«Non necessariamente. Non mi piacciono gli artisti-stiliti, quelli che vivono in eremitaggio e si sentono al di sopra della gente comune. Però neanche quelli che giocano troppo con le istituzioni, i sindaci e le Casse di risparmio».

Lei nella vita ha viaggiato moltissimo, e in posti diversi, come la Norvegia e Cuba…

«Ma tutti viaggiano, no? Chi non è stato alle Seychelles? È vero però che in certi posti, come a Cuba e in Norvegia, ci ho vissuto davvero, negli anni Sessanta».

In Germania, molti suoi concittadini si sentono bavaresi, prima che tedeschi…
«Ma non è lo stesso qui? Anche in Italia vedo divisioni a seconda delle località di provenienza. Il fatto è che anche in Italia, come in Germania, funziona solo la città. Lo Stato è qualcosa di più lontano e astratto».

Lei ha manifestato spesso pessimismo riguardo alla fede nel progresso. Almeno, scrivere libri serve a qualcosa?
«Noto che anche in Italia molti buoni libri finiscono presto sulle bancarelle».

Lei sostiene che i bambini, anche di cinque-sette anni, senza saperlo conoscano un gran numero di poesie. Non fa distinzione tra filastrocche, canzoni della tv, preghiere, musica pop. Ha detto che le liriche di Bob Dylan sono di alta qualità…
«È vero, le parole di Bob Dylan per me sono anche superiori alla sua musica. E mi piacciono anche i testi di John Lennon. Certo, una poesia deve avere una forza musicale in se stessa, ma la musica può aggiungere qualcosa. Io stesso ho provato a far “musicare” i miei versi. Nel caso dei bambini, bisogna disarmare in loro la paura e la reticenza. Incoraggiare le loro ambizioni. Poi si può passare a forme più sofisticate».

Anche in Germania gli intellettuali sono divisi in correnti? Lo ritiene uno stimolo o un impedimento per le idee?
«Sì, sono molto divisi. Non saprei dire se è un vantaggio o uno svantaggio. Io adesso cerco di tenermi fuori dagli schieramenti».

Cinquant’anni fa fece parte del famoso «Gruppo 47», fra cui si sono distinti alcuni dei massimi intellettuali tedeschi del dopoguerra, come Günter Grass. In che rapporti siete?
«Con Grass ci conosciamo da mezzo secolo. Siamo entrambi considerati molto controversi. Quando penso a lui mi viene in mente la figura della famiglia. E naturalmente, proprio come succede in tutte le famiglie, qualche volta abbiamo litigato».

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Ieri sera ho partecipato, sebbene da casa mia a Reggio di Calabria, alla partita della vita di Firenze. Certo che mi sono emozianata moltissimo, certo che ho apprezzato le tantissime presenze di tante stelle del firmamento calcistico internazionale,giocatori attuali e precedenti, allenatori, dirigenti e il loro modo di esserci; certo. Altrettanto certamente, però, dentro me montava via via tanta rabbia che proveniva dall’ urlo silenzioso di Stefano Borgonovo, questo “eroe moderno”, come l’ ha definito molto appropriatamente Roberto Baggio, che ha avuto il coraggio di mostrare la propria sofferenza, il proprio dolore, a tutti con estrema onestà e lealtà. E’ questa la partita che vorrei vedere sempre e, contemporaneamente, non vorrei vedere mai. Vorrei, infatti, assistere sempre ad un calcio sereno, rispettoso, goliardico; e non vorrei vedere mai la stessa partita giocata per un motivo doloroso.Siamo una famiglia, almeno e soprattutto mentalmente, di sportivi. Mio marito ha giocato a calcio da giovane e ancora si diverte, io tuttora amo camminare e fare escursioni; i nostri tre figli praticano sport. Mio marito ed io abbiamo sempre pensato che attraverso l’ attività sportiva si possono veicolare i valori fondamentali relativi alla dignità della persona umana e al suo essere sociale e abbiamo cercato di trasmettere ai nostri figli queste idee, convinti come siamo che la pratica dello sport possa insegnare e aiutare a vivere. Non a morire, però. Il mio primogenito aveva la passione della bici, sulla quale si sentiva libero e felice; sognava di scalare il Ventoux e di correre nei circuiti importanti. Intorno ai dodici/tredici anni è andato con il papà dal titolare di una società di corse a proporsi. Questo signore, dopo aver ascoltato il ragazzo, ha dato la sua disponibilità e poi l’ha “rassicurato” dicendogli che ” poi ci sarà l’ aiutino”. Mio figlio è tornato a casa deluso e arrabbiato ed ha spontaneamente abbandonato la bici. Io non so se la SLA, questa brutta bestia, sia collegata al doping, ma vorrei che non ci fossero dubbi in tal senso. Per questo Stefano Borgonovo è un vero eroe : per la determinazione che mette dal suo assordante silenzio alla ricerca della verità.

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