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Archive for 11 ottobre 2008

Considerando l’ analisi testuale come esercizio critico letterario di un testo anche se non so bene quando sia stato introdotta la sua applicazione nella scuola italiana, non sono un addetto tra l’ altro, ho sempre ritenuto che sia uno studio inutile e dannoso, che offende il pensiero dell’ autore. A mio avviso, infatti, un poeta o uno scrittore scrive per esprimere un bisogno personale,intimo,più o meno profondo che riguarda il suo vissuto relativo al momento in cui si esprime ; il lettore, a sua volta, ne ha una comprensione relativa al momento in cui legge.Nessuno, quindi, dovrebbe arrogarsi il diritto di vivisezionare lo scritto di un’ altra persona. La nostra scuola,ormai da diversi decenni, obbliga gli studenti ad imparare critiche di altri, gratificando chi riesce a ripeterne a pappardella il pensiero , penalizzando chi osa esprimere un parere personale; e tutto ciò a scapito del testo, che viene trascurato.E’ la diffusione del pensiero di massa omogeneo e uniforme. A confortare la mia convinzione il parere di una autorità in campo letterario come Enzensberger che ho l’ onore e il piacere di riportare con questo post.

Enzensberger: “La poesia? Massacrata dai professori”

Lunedi 23 giugno 2008

di Paolo Bianchi

http://www.ilgiornale.it/att_jpg.php?ID=365512&X=198&Y=149

Parma – Nel film Caro diario di Nanni Moretti c’è un paradigmatico intellettuale di sinistra che non guarda la televisione, però conosce tutta l’opera di Hans Magnus Enzensberger. Finirà per convertirsi a Beautiful. Il poeta, saggista, editore e polemista tedesco (bavarese) nato nel 1929 a Kaufbeuren e presto trasferitosi a Norimberga, ha riso molto di questa citazione. Normale, per uno che in tutta la vita ha fatto dell’anticonformismo la sua bandiera, insofferente verso la retorica ortodossa, verso i manifesti e verso le diatribe accademiche. Enzensberger è oggi un allegro monumento vivente della cultura europea. Si diverte ad alimentare il mito della propria suscettibilità. È calato da Innsbruck, in auto, come ospite d’onore del «ParmaPoesia Festival» (che chiude domani una ben riuscita quarta edizione). Ha corrugato la fronte quando in albergo gli hanno chiesto la carta d’identità. Ha rifiutato i primi approcci dei giornalisti, rei di avergli rivolto, in un recente passato, «domande superficiali e noiose». Poi si è divertito a incontrare il pubblico, prima insieme al critico e saggista Alfonso Berardinelli (con il quale in passato ha scritto il volume Che noia la poesia) e poi con il collega poeta americano Stanley Moss, in una serie di letture a cura di Nicola Crocetti e Giorgio Gennari in collaborazione con Teatro Festival Parma.

Tra il chiostro della casa della Musica e quello di Sant’Uldarico si attraversa a piedi il centro storico della città emiliana, lungo il cardo di strada Farini. Una passeggiata che diventa pretesto per chiacchierare un po’. Il poeta è di buon umore e sfoggia un italiano corretto e tagliente. Alto, cappello di paglia, completo verde chiaro, sguardo furbesco e penetrante, sembra contento del bagno di folla e del fatto che riceverà la «cittadinanza poetica onoraria».

Lei sembra un ottimo testimonial della poesia come espressione di libertà creativa, non di costrizione.
«A scuola non si chiede agli studenti di leggere la poesia, ma di interpretarla. Si devono scrivere saggi sulle opere, senza neanche poter scegliere. E qui inizia il disastro. I professori chiedono agli allievi di indovinare quello che loro sono convinti l’autore abbia detto. Da questo dipende il voto. Se il professore è di sinistra, lo studente deve fare l’engagé; se è reazionario, deve puntare sull’estetica. Il pregiudizio è che il pedagogo è sempre più intelligente del bambino. Per la stessa ragione, si soffre anche con la matematica…».

In Italia, fino a pochi anni fa, bisognava trovare a tutti i costi geniale il teatro di Bertolt Brecht e chiunque lo interpretasse. Che ne pensa?
«Anche in Germania. Io trovo il Brecht poeta molto superiore al drammaturgo».

Salutando il pubblico, ha detto: «Siamo la bella minoranza che s’interessa alla poesia». La poesia è un genere per pochi?
«Lo diventa se viene insegnata come fosse una tortura».

I poeti sono degli isolati?
«Non necessariamente. Non mi piacciono gli artisti-stiliti, quelli che vivono in eremitaggio e si sentono al di sopra della gente comune. Però neanche quelli che giocano troppo con le istituzioni, i sindaci e le Casse di risparmio».

Lei nella vita ha viaggiato moltissimo, e in posti diversi, come la Norvegia e Cuba…

«Ma tutti viaggiano, no? Chi non è stato alle Seychelles? È vero però che in certi posti, come a Cuba e in Norvegia, ci ho vissuto davvero, negli anni Sessanta».

In Germania, molti suoi concittadini si sentono bavaresi, prima che tedeschi…
«Ma non è lo stesso qui? Anche in Italia vedo divisioni a seconda delle località di provenienza. Il fatto è che anche in Italia, come in Germania, funziona solo la città. Lo Stato è qualcosa di più lontano e astratto».

Lei ha manifestato spesso pessimismo riguardo alla fede nel progresso. Almeno, scrivere libri serve a qualcosa?
«Noto che anche in Italia molti buoni libri finiscono presto sulle bancarelle».

Lei sostiene che i bambini, anche di cinque-sette anni, senza saperlo conoscano un gran numero di poesie. Non fa distinzione tra filastrocche, canzoni della tv, preghiere, musica pop. Ha detto che le liriche di Bob Dylan sono di alta qualità…
«È vero, le parole di Bob Dylan per me sono anche superiori alla sua musica. E mi piacciono anche i testi di John Lennon. Certo, una poesia deve avere una forza musicale in se stessa, ma la musica può aggiungere qualcosa. Io stesso ho provato a far “musicare” i miei versi. Nel caso dei bambini, bisogna disarmare in loro la paura e la reticenza. Incoraggiare le loro ambizioni. Poi si può passare a forme più sofisticate».

Anche in Germania gli intellettuali sono divisi in correnti? Lo ritiene uno stimolo o un impedimento per le idee?
«Sì, sono molto divisi. Non saprei dire se è un vantaggio o uno svantaggio. Io adesso cerco di tenermi fuori dagli schieramenti».

Cinquant’anni fa fece parte del famoso «Gruppo 47», fra cui si sono distinti alcuni dei massimi intellettuali tedeschi del dopoguerra, come Günter Grass. In che rapporti siete?
«Con Grass ci conosciamo da mezzo secolo. Siamo entrambi considerati molto controversi. Quando penso a lui mi viene in mente la figura della famiglia. E naturalmente, proprio come succede in tutte le famiglie, qualche volta abbiamo litigato».

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