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Posts Tagged ‘Ernesto Galli della Loggia’

il dibattito sulle radici della corruzione

L’Italia ipocrita e quelle domande
alle quali non si vuole rispondere

il dibattito sulle radici della corruzione

L’Italia ipocrita e quelle domande
alle quali non si vuole rispondere

Di chi può mai essere la colpa della corruzione italiana se non della politica? Di chi se non dei politici – beninteso di quelli per cui votano gli “altri”? Si mettano dunque l’una e gli altri sul banco degli accusati per la meritata, inevitabile condanna. Così la pensano oggi moltissimi italiani i quali non vogliono sentirsi dire che la corruzione di questo Paese – anche quella pubblica – è invece qualcosa che viene dal profondo, che rimanda alla storia vischiosa, oltre che del nostro Stato, della nostra società; ai suoi meccanismi e vizi inveterati. No, guai a dirlo: si è subito sospettati di voler cancellare le responsabilità individuali, di voler “salvare i ladri”. Che c’entriamo noi con la corruzione? La colpa è solo della politica.

In questo modo sta per ricominciare oggi il circolo perverso avviatosi nel ’92-’93. Infatti, se si mettono così le cose è fatale che agli occhi dell’opinione pubblica l’immagine di tutta la politica e di tutti i politici ne esca complessivamente a pezzi. Con l’ovvia conseguenza, che più ciò accadrà e più solo i mediocri o gli spregiudicati accetteranno di entrare nell’arena pubblica, e che quindi, alla fine, la politica risulterà ancora di più inetta e/o corrotta, accrescendo ulteriormente la sfiducia e la disistima generali. Sta per ricominciare alla grande, insomma, il meccanismo implacabile dell’antipolitica. Il meccanismo che si mise in moto all’epoca di “Mani pulite” e i cui risultati nonostante l’avvicendarsi di governi di destra e di sinistra, sono sotto gli occhi di tutti: allora svergognata e vilipesa la politica non si è rinnovata per nulla, la qualità dei suoi protagonisti è anzi in media peggiorata, ed essa non è stata capace né allora né poi di correggere un bel nulla del sistema che aveva portato a Tangentopoli.

Non è questione di pensare che la corruzione sia “connaturata” alla società italiana. Bensì di convincersi che essa è innanzi tutto della società italiana. Di convincersi cioè che, in Italia, in tanto la politica può ospitare un così alto numero di traffichini e di lestofanti, in tanto può rappresentare un ambito d’elezione per un così gran numero di scambi e guadagni più o meno loschi, in quanto, e solo in quanto, ha come sponda, come interlocutrice permanente, una società moralmente opaca come la nostra. Perché alla fine delle due l’una, insomma: o si nega che quella italiana sia una società di tal fatta (e mi sembra davvero difficile), o si deve sostenere che tra lo standard morale della politica e lo standard morale della società non c’è alcun rapporto necessario (e si dice una palese assurdità). Naturalmente c’è sempre una terza possibilità (che sospetto sia proprio quella fatta ipocritamente propria da molti abitanti della penisola): e cioè credere, o fingere di credere, che in una società di diavoli i politici, non si sa per quale miracolo, possano – anzi debbano – essere degli angeli; e la politica, di conseguenza, una specie di anticamera del paradiso terrestre. Tutti coloro che, come Marco Vitale, rimproverano alla politica in genere, e dunque anche alla sinistra, di non aver preso le misure necessarie per una vasta e radicale opera di moralizzazione pubblica, dovrebbero innanzi tutto chiedersi: ma siamo sicuri che quel partito o quello schieramento che lo avesse fatto avrebbe avuto il consenso degli elettori italiani? O non sarà forse che un’opera del genere – per come è l’Italia, il suo mercato del lavoro, i suoi rapporti patrimoniali, per come sono abituati i suoi pubblici dipendenti, per come sono le sua abitudini diciamo così fiscali – non sarà forse che un’opera del genere avrebbe suscitato molte più opposizioni che consenso? E perché altrimenti nessun partito, nessuno schieramento, ha mai preso questa strada?

Di fronte agli scandali in cui è coinvolta la politica (anche o soprattutto la politica) molti uomini e donne impegnati nelle attività private, nel mondo del fare come oggi si dice, amano invocare rispetto delle regole, meritocrazia, presenza di poteri contrapposti, trasparenza, orgoglio di ruolo. Lo ha fatto l’altro giorno anche Franco Bernabè su queste colonne. Confesso di non aver ben capito a chi fosse rivolto di preciso una tale astratta invocazione – che anche in questo caso come in altri casi, di altri autori, evita di fare nomi e cognomi – ma spero che comunque il presidente della Telecom mi perdonerà se gli rivolgo una domanda impertinente: in che misura a suo giudizio il sistema delle imprese italiane e quello bancario – e la stessa Telecom, aggiungo, toccando davvero il colmo dell’impertinenza – si attengono alle prescrizioni da lui messe nero su bianco? Personalmente penso che lo facciano parecchio meno di quanto dovrebbero e di quanto accada di solito in altri Paesi, a cominciare per esempio dagli Stati Uniti. Basta vedere l’accanimento tenace con il quale tutto quel mondo si è opposto ad un’efficace legislazione sulla “class action”; e se non sbaglio senza che nessun suo esponente alzasse la minima voce contraria. Non è solo la politica, insomma, a non avere le carte in regola.

Se non cominceremo una buona volta con il dirci tutto questo, con il dircelo ad alta voce e dircelo di continuo, potremo pure mandare periodicamente all’ergastolo tutti i “marioli” e i “birbantelli” del caso, potremo pure in un raptus suicida nominare Marco Travaglio ministro della giustizia, ma rimarremo sempre quello che siamo: una società malandrina, spietata e al tempo stesso accomodante, un Paese sostanzialmente senza legge e senza verità.

Ernesto Galli della Loggia
20 febbraio 2010

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La corruzione e le sue radici

Si accontenti chi vuole di credere che «il problema è politico» e riguardi quindi la destra e la sinistra. Sì, questa volta a essere presi con le mani nel sacco sono stati esponenti del Pdl, ma in passato la stessa cosa è accaduta con esponenti del Pd: ma anche dando per scontato che le imputazioni a loro carico siano domani convalidate da una sentenza, davvero la corruzione italiana si riduce a quella dei politici? Davvero in questo Paese la sfera della politica è malata e il resto della società è sano? Non è così, con ogni evidenza. Ognuno di noi sa bene che non è così, e non bisogna smettere di dirlo, anche se i soliti moralisti di professione grideranno scandalizzati che in questo modo si finirebbe per occultare «le precise responsabilità politiche». Ma figuriamoci: cosa volete mai che si occulti, con tutta la stampa ormai scatenata dietro Monica e Francesca, dietro Bertolaso, Balducci, e compagnia bella?

Proprio perché non ha alcuna natura propriamente politica ma affonda radici profondissime nel corpo sociale – cosicché nella politica essa si riversa soltanto, essendo uno degli ambiti dove più facile è la sua opera – la corruzione italiana sfugge a ogni facile terapia. Come si è visto quando, convinti per l’appunto del suo carattere politico, abbiamo creduto che almeno per ridurne la portata bastasse mutare il sistema elettorale, o fare le privatizzazioni, o cambiare la legge sugli appalti, o finanziare i partiti in altro modo dal finanziamento diretto; o che l’esempio di «Mani pulite», di cui proprio oggi è paradossalmente il 18mo anniversario, potesse segnare una svolta. Invece è stato tutto inutile. La corruzione italiana appare invincibile. Rinasce di continuo perché in realtà non muore mai, dal momento che a mantenerla viva ci pensa l’enorme serbatoio del Paese. La verità, infatti, è che è l’Italia la causa della corruzione italiana: lo si può dire senza rischiare l’accusa di lesa maestà? Chi si ostina a credere che «il problema è politico», che tutto si riduca a destra e sinistra, lo sa che le tangenti continuano a girare vorticosamente anche nel privato: che dappertutto qui da noi, quando ci sono soldi in ballo, non si dà e non si fa niente per niente?

Lo sa che i concorsi più vari (non solo le gare d’appalto!) sono sempre, in misura maggiore o minore, manipolati? Riservati agli amici e ai protetti quando non direttamente truccati in un modo o nell’altro dai concorrenti con la complicità delle commissioni, e il tutto naturalmente in barba a ogni credo politico? E che colore politico pensa che abbia l’evasione fiscale dilagante? O i tentativi a cui si dedicano incessantemente milioni di italiani di violare i regolamenti urbanistici ed edilizi in tutti i modi possibili e immaginabili (spessissimo riuscendoci grazie all’esborso di mazzette)? E a quale schieramento politico addebitare, mi chiedo, il sistematico taglieggio che da noi viene praticato da quasi tutti coloro che offrono una merce o un servizio al pubblico, come le società autostradali, quelle di assicurazione, le compagnie telefoniche, le compagnie petrolifere, quelle aeree, le banche, le quali tutte possono a loro piacere fissare tariffe esagerate, imporre contratti truffaldini, balzelli supplementari, clausole capestro, sicure dell’impunità? Sì lo so, tecnicamente forse non è corruzione. Ma so pure che in molti altri Paesi comportamenti del genere sono severamente sanzionati anche sul piano penale. Da noi no, sono considerati normali. Perché?

La risposta è nella nostra storia profonda, nei suoi tratti negativi che i grandi ingegni italiani hanno sempre denunciato: poca legalità, assenza di Stato, molto individualismo anarchico, troppa famiglia, e via enumerando. Perciò l’Italia è apparsa tante volte un Paese bellissimo ma a suo modo terribile. E lo appare ancor di più oggi, dopo aver perso anche gli ultimi pezzi delle sue fedi e dei suoi usi antichi. Più terribile e incarognito che mai. Più corrotto. Spesso queste cose le capisce per prima l’arte, e in particolare il cinema, il nostro cinema, a cui tanto deve la conoscenza di ciò che è stata ed è l’Italia vera. Quell’Italia vera che riempie, ad esempio, le immagini dell’ultimo film di Pupi Avati, Il fratello più piccolo, in arrivo proprio in questi giorni nelle sale cinematografiche. Un ritratto spietato di che cosa è diventato questo Paese: una società dove gli unici «buoni» sembra non possano che essere dei disadattati senz’arte né parte; dove, nell’ultima scena, dal volto pur devastato e ormai annichilito di un grandissimo De Sica, ladro e canaglia ridotto all’ozio forzato su un terrazzino di periferia, non cessa tuttavia di balenare il guizzo di un’inestinguibile mascalzonaggine. È di una lucida resa dei conti del genere che abbiamo bisogno; di guardare a fondo dentro di noi e dentro la nostra storia. Non di credere, o di fingere di credere, che cambiare governo serva a cambiare tutto e a diventare onesti.

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Ernesto Galli della Loggia
17 febbraio 2010

corriere.it

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SCUOLA, LA VERA EMERGENZA

Su quei banchi ci siamo tutti

Da anni l’istruzio­ne è il cuore malato dell’Ita­lia inferma. È lo specchio del nostro de­clino. Siamo agli ultimi posti nella classifica dei rendimenti scolastici, il che vuol dire che i giova­ni italiani sanno far di conto, scrivere e capire un testo peggio di quasi tutti i loro colleghi non italiani, mentre i due grandi punti di forza del­la nostra tradizione scola­stica, la scuola elementa­re e il liceo, sono ormai solo la pallida ombra di ciò che furono. Sul ver­sante finale, le nostre mi­gliori università, gestite troppo a lungo dal pote­re arbitrario di chi vi in­segna, e soffocate da pro­blemi di ogni tipo, fanno una ben misera figura ri­spetto alle migliori stra­niere.

È vero: da decenni la quota di spesa pubblica destinata all’istruzione è troppo bassa; ma atten­zione: specie per quel che riguarda l’istruzione primaria e secondaria es­sa non è poi così catastro­ficamente bassa rispetto alla media europea. Guardando le cose nei lo­ro termini più generali, il problema centrale del nostro sistema d’istruzio­ne appare soprattutto un altro. È il fatto che l’ambi­to della scuola e dell’uni­versità è quello dove da circa mezzo secolo si ma­nifestano con particola­re virulenza tre aspetti critici della nostra vita collettiva: il potere sinda­cale, il timore sempre in agguato per l’ordine pub­blico (comune a tutti i partiti e a tutti i governi), e infine la diffusione, nel­la scuola e fuori, di un senso comune cultural­mente ostile alla dimen­sione del merito, del do­vere, della disciplina, del­la selezione. I lettori san­no di cosa parlo. La scuo­la è rimasta un settore dove i sindacati e le loro logiche corporative han­no in buona parte anco­ra oggi un virtuale dirit­to di veto su qualunque decisione non solo di ti­po organizzativo (circa le carriere e le assunzio­ni del personale), ma an­che sui programmi e in generale sulla didattica. Egualmente, basta la più piccola minoranza stu­dentesca che organizzi un corteo o un sit-in per­ché il mondo politico sia attraversato da un brivi­do di speranza o di pau­ra credendo di scorgere all’orizzonte una riedizio­ne del mitico Sessantot­to. E nel complesso, poi, guai a chiunque dica che nell’istruzione il permis­sivismo va messo al ban­do, che ogni apprendi­mento esige anche sacri­ficio, che non tutti alla fi­ne possono risultare ca­paci e meritevoli.

In queste condizioni fare il ministro dell’Istru­zione e dell’Università in Italia equivale a essere una specie di san Seba­stiano: bersagliato da ogni parte, schernito, vi­lipeso e mostrificato alla prima occasione, desti­nato quasi sempre a scontentare tutti. Da Gui alla Moratti, passando per De Mauro e Berlin­guer, è stato in pratica un vero e proprio marti­rologio politico, e anche l’anno scolastico che si apre in questi giorni mi­naccia come al solito tempesta sul capo del san Sebastiano di turno, il ministro Gelmini. Dal momento che scoccare frecce verso chi si trova legato al palo dell’istru­zione è facile, molto faci­le: e infatti nel corso de­gli ultimi decenni nessu­na forza politica si è sot­tratta alla tentazione di farlo ricavandone il mise­ro utile del caso.

Ernesto Galli Della Loggia
13 settembre 2009

corriere.it

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Quella sera, giovedi 30 ottobre 2008, seduto su una poltrona bianca del salotto buono di un Vespa piacevolmente brioso,rivolto con sprezzante aria di sussiego ai suoi dirimpettai sentenzia che c’è, esiste dunque, una verità morale al di sopra e aldilà di ogni fatto storico, e si tratta, naturalmente, della sua verità morale, indiscutibile e certa. Da rabbrividire : all’ anima dello storico, per di più docente universitario ! La trasmissione Porta a Porta prende spunto dal film “Il sangue dei vinti” tratto dall’ omonimo libro di Giampaolo Pansa, il quale si trova in studio insieme ad altri ospiti, tra cui Michele Placido ed Ernesto Galli della Loggia. Già Erodoto, il padre della storiografia sosteneva che ci sono diversi modi di interpretare una unica verità, difficile da raccontare con assoluta fedeltà ai fatti realmente accaduti. In questo senso, lo sforzo e il coraggio di Giampaolo Pansa sono encomiabili; è raro, infatti,incontrare una persona capace e determinata a ricercare la verità con onestà intellettuale, rigore scientifico e metodo analitico. Pansa, libero da pregiudizi e condizionamenti politici e sociali, riesce a scavare nei tragici giorni che datano la fine della seconda guerra mondiale e il periodo successivo caratterizzati in Italia da lotte fratricide intestine e dolorosissime. Mentre Placido e Galli Della Loggia discutono serenamente, Villari si ritiene depositario della verità assoluta, ostenta presunzione e arroganza , sbaglia clamorosamente e si giustifica implorando un lapsus. Fa una figura…anzi una figuraccia!…..Se l’ intenzione di Vespa era quella di mettere in difficoltà il docente universitario, c’è riuscito pienamente. Che lezione gli hanno dato quei tre ! La competenza e la serenità di giudizio di Galli della Loggia sono indiscusse, ma anche Placido che di mestiere fa l’ attore è stato incisivo e pertinente, accettando verità lampanti per lungo tempo oscurate, nascoste spesso volutamente, altre volte travisate. Il dibattito schiaccia inesorabilmente un maleducato Villari ed esalta la professionalità elegante e raffinata di Pansa. Evidentemente i Villari con la storia ne fanno una questione personale. In proposito mi viene alla memoria qualche ricordo . Ho avuto la fortuna di avere al liceo come insegnante di storia e filosofia un certo professore Paolino Costabile, alla cui scuola ho appreso l’ importanza della critica storica. Incline per natura alla ricerca della verità ad ogni costo ho fatto tesoro degli insegnamenti di Costabile per cercare il bello, il giusto e il vero sempre e dappertutto. All’ università, alla facoltà di scienze politiche il docente di storia adottava i testi di Rosario Villari, che non ho mai digerito, perchè spudoratamente di parte, bugiardi e densi di pregiudizi. Si tratta, quindi, di una malattia di famiglia. A me dispiace soltanto che i due fratelli storici Villari, Rosario e Lucio, siano calabresi della provincia di Reggio, anche perchè nei loro libri vengono soprattutto sacrificati, ignorati e maltrattati fatti e situazioni relativi proprio al nostro territorio. Sic transit gloria mundi !

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PRIGIONIERI DEL PASSATO

di Ernesto Galli della Loggia

Un Paese fermo, consegnato all’immobilità: ecco come appare oggi l’Italia. Non già nella cronaca convulsa del giorno per giorno, nell’agitazione della lotta politica, nei movimenti sempre imprevedibili di una società composita, frammentata e priva di inquadramenti istituzionali forti. Ma un Paese fermo perché anche nelle sue élites prigioniero dei luoghi comuni, incapace di pensare e di fare cose nuove in modo nuovo, di sciogliere i nodi che da tanto tempo ostacolano il suo cammino.

Da trent’anni ci portiamo sulle spalle un debito pubblico smisurato che non riusciamo a diminuire neppure di tanto. Da decenni dobbiamo riformare la scuola, la Rai, la sanità, le pensioni, la magistratura, la legge sulla cittadinanza, e siamo sempre lì a discutere come farlo. Da decenni dobbiamo costruire la Pedemontana, le prigioni che mancano, il sistema degli acquedotti che fa acqua, il ponte sullo Stretto, le metropolitane nelle città, la Salerno- Reggio Calabria, la Tav del corridoio 5, e non so più cos’altro. Ma non lo facciamo o lo facciamo con una lentezza esasperante. Nel tempo che gli altri cambiano il volto di una città, costruiscono una biblioteca gigantesca, un museo straordinario, noi sì e no mettiamo a punto un progetto di massima sul quale avviare discussioni senza fine.

Perché in Italia le cose vanno così? I motivi sono mille ma alla fine sono tutti riconducibili a una sensazione precisa: siamo una società prigioniera del passato. Con lo sguardo perennemente rivolto all’indietro, che ama crogiolarsi sempre negli stessi discorsi, nelle stesse contrapposizioni, nelle stesse dispute, assistere sempre allo spettacolo degli stessi gesti e degli stessi attori. Da noi il passato non diviene mai inutile o inutilizzabile. Non si butta via mai niente. Ogni cosa è potenzialmente per sempre: ogni ruolo, ogni carica è a vita, e pure se siamo reduci da qualcosa lo siamo comunque in servizio permanente effettivo. In un’atmosfera di soffocante ripetitività siamo sempre spinti a conservare o a replicare tutto: idee, appuntamenti stagionali, parole d’ordine, comizi, titoli di giornali.
Ci domina una sorta di freudiana ritenzione anale infantile: paurosi di abbandonarci alla libertà creativa e innovativa dell’età adulta, a staccarci dalla comodità del già noto, solo noi, nella nostra vita pubblica, abbiamo inventato la figura oracolare e un po’ ridicola del «padre della patria» con obbligo di universale reverenza. È, il nostro, l’immobilismo di un Paese abbarbicato a ciò che ha vissuto perché non riesce a credere più nel proprio futuro, di un Paese che sotto la vernice di un’eterna propensione alla rissa in realtà fugge come la peste ogni rottura e conflitto veri, e desidera solo continuità. Che come un vecchio Narciso incartapecorito anela solo a rispecchiarsi nel già visto.

Un Paese, come c’informa La Stampa di qualche giorno fa, dove Guido Viale, antico giovane di un remoto «anno dei portenti », si compiace — invece di averne orrore — che oggi «le occupazioni delle scuole si fanno assieme ai genitori», e che «questi ragazzi lottano accanto ai professori e ai presidi». Già, «accanto ai professori e ai presidi»: che lotte devono essere! E comunque è con queste, buono a sapersi, che l’Italia si allena ai duri cimenti dell’avvenire.

25 ottobre 2008

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