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Phral ki ni pusti, xadde ki vuare pusti

                       Amicizia in una tasca, soldi nell'altra tasca.
  
                                        ( da "detti di zingari" )

 

Continuo a sentirmi fuori posto : è una condizione che mi porto addosso da molto tempo e sono consapevole che appartiene all’uomo in quanto tale e al suo essere sociale. Come racconta la storia, il disagio dell’essere umano è stato osservato, studiato, narrato, approfondito, analizzato, da filosofi, letterati, poeti,psicologi, teorici della politica e dell’economia, tutti e ognuno in relazione con il proprio vissuto. Io però, nonostante questa coscienza, non riesco a rassegnarmi : non capisco perchè, nel terzo millennio che consideriamo così evoluto, non riusciamo a fare tesoro delle esperienze del passato rifiutandoci di vivere nel presente. Come se la società italiana fosse narcotizzata e incartata rifiutandosi di leggere il presente, rifiutandosi di accettare il dinamismo della natura. E andiamo avanti con pregiudizi e preconcetti, magari confezionati da chi per noi; preferiamo celebrare con manifestazioni roboanti, e con impiego notevole di risorse umane ed economiche, fatti del passato commemorando lutti e morti, invece di cantare la vita. In questo senso valga per tutti l’esempio delle cerimonie-sfilate-spettacoli in ricordo dell’olocausto del cosiddetto secolo breve, mentre contemporaneamente ci rendiamo complici di una tratta di persone vergognosa e scandalosamente inaudita,  sulla quale, da decenni, speculano politici ed ecclesiastici lucrando loschi guadagni,  da spietati criminali. Vengono strappati, a suon di denari, popoli di persone ai loro luoghi d’origine con false illusioni e, quando, queste persone, si salvano dall’ecatombe nel Mar Mediterraneo, il mare Nostrum già ricco di cultura e civiltà, ridotto adesso a fossa comune di esseri senza nome e senza volto, quando si salvano, dunque, vengono abbandonate all’addiaccio, senza alcun rispetto per la dignità della persona umana. Dal 2008, sono ormai 10 anni che scrivo di queste cose e adesso che qualcuno cerca di porre in qualche modo rimedio viene additato come il carnefice. Essì, in questa società spesso il carnefice diventa vittima e la vittima carnefice. Molti poi in proposito implorano, a sostegno della cosiddetta accoglienza, l’emigrazione italiana verso l’altrove. In merito prendo in considerazione l’emigrazione verso gli USA, la più numerosa. Come premessa c’è da dire che il nuovo mondo aveva una  densità di popolazione bassissima e bisognava di risorse umane in tutti i campi, sia di manodopera in molti settori che intellettuale. Serviva, prima di tutto, il famoso “atto di richiamo”, cioè qualcuno, privato o rappresentante istituzionale che facesse richiesta personalizzata; quindi le persone in partenza si munivano di passaporto regolare e partivano, pagando solo le spese di viaggio. Giunte oltre oceano, venivano fatte sbarcare nell’isolotto di Ellis Island, dove venivano identificate, controllate, schedate, tenute in quarantena, se del caso rimandate indietro con la stessa nave. All’interno dei locali degli edifici dell’isola ci sono sempre le foto  di tutti coloro  che sono da lì  transitati. Senza dire di casi in cui sono stati rimandati in Italia mamme con il  bimbo, che, pur nato in America, manifestava qualche patologia per la quale non poteva essere considerato una forza lavoro potenziale.

Razzisti sono tutti coloro che speculano su questo sporco commercio

 

Viene poi alla ribalta in questi giorni un altro problema, quello degli zingari. Quando ero piccola nel mio paese aspromontano ogni tanto si accampavano, gli zingari. Cercavano beni di prima necessità e materiale di riciclo; con il ferro facevano strumenti per curare il fuoco, del camino e del forno, e ancora in casa mia resiste qualcosa. Sostavano qualche mese e poi andavano via secondo il loro stile di vita. A Reggio Di Calabria, negli anni intorno al 1980 l’amministrazione comunale del tempo ha data casa a cinque famiglie di zingari: una sola ha gradito, le altre quattro hanno cercato subito di venderle.  Perchè non si possono chiamare “zingari “, mica è una parola offensiva, anzi è un termine aulico nella sua accezione originaria. Se gli zingari sono per DNA nomadi, perchè si stanziano in maniera stabile sul territorio italiano, usufruendo di privilegi fiscali ed economici e vivendo di espedienti, trascurando l’indigenza e  la sporcizia ?  Perchè non si possono censire? A noi, i pochi superstiti cosiddetti italiani, viene razionata pure l’aria che respiriamo e siamo contati e ricontati mille volte, e perchè si grida contro se viene proposto un censimento per gli zingari, che sono comunque stanziali, tra l’altro ? Cosa c’entra poi il razzismo con tutto questo ? Perchè non si possono  pronunziare più le parole italiane  razza, etnia, negro  senza venire insultati di razzismo ? Perchè ? Mica sono insulti, oltraggi, offese.

 

Ah sì, a proposito, sono razzista e cattiva: sono razzista perchè, in caso di effettivo bisogno, preferisco aiutare le persone a casa loro e non lucrerei mai loschi guadagni per vedere morire esseri umani ammazzati, comunque, come accade adesso, da comportamenti mafiosi anche di personaggi politici e cattolici. Sono cattiva, senza alcun dubbio, perchè ho la cosiddetta “faccia tosta”, nel senso che non guardo in faccia nessuno, nel senso che considero sempre innanzi tutto e come premessa di ogni mio agire come valore fondamentale il rispetto dell’altro, chiunque sia, e, quindi, di me stessa; e in nome proprio del rispetto, che per me è disciplina di vita, sono, all’occorrenza, spregiudicata.  

A cornice di questi due grossi problemi attuali c’è il coro unanime dei mezzi di informazione omertosi, allineati e coperti sotto il segno del buonismo bigotto e ipocrita di una società massificata; quei mezzi di informazione che Maria Giovanna Maglie chiama, con intuizione geniale, “comunicatore unico”.

Ci diciamo orgogliosi di vivere in un Paese democratico e poi siamo sempre gli uni contro gli altri armati con offese, vituperi, oltraggi e contumelie di ogni genere : se abbiamo in qualche modo voluto questo sistema di Stato e di Governo, rispettiamo la volontà popolare, anche se non rispecchia le nostre idee e critichiamo con eleganza, senza scadere nell’infamia e nell’ignominia, spesso gratuite; in questo contesto, poi, nei confronti degli altri paesi, dovremmo essere e dimostrarci fieramente coesi sulla nostra identità nazionale con dignità e serietà, quando invece sembriamo un branco di mercenari al servizio di questo e/o quello.

Questi due problemi-faccende sociali andrebbero affrontati aldilà di ogni appartenenza di parte e di partito, perchè se si rimane incollati alla propria partigianeria non si risolveranno mai, confermando quanto disse il Sommo “Ahi serva Italia, di dolore ostello”….con tutto quel che segue.

Di seguito qualche  altro mio scritto a proposito di immigrazione dal 2008 in poi

 

Sedotti e abbandonati

Ormai non ho più parole; la mia indignazione e la mia rabbia davanti ad una continua ecatombe di esseri umani non può essere espressa. L’ipocrisia buonista di tutti ( o quasi ) i Governi Italiani che specula sul commercio di popoli grida vendetta al cospetto di Dio e di ogni coscienza, altro che solidarietà, un vocabolo, questo, che non mi piace affatto, che serve solo a coprire un crimine efferato, come quello della tratta di persone vive, e ad ingannare manipolando la buona fede di quanti non si rendono conto che il fenomeno degli immigrati è di fatto un affare sporco, anzi sporchissimo, lurido, indecente, sudicio, schifoso. Con grande sdegno e sommo rammarico riedito alcuni scritti pubblicati in questo blog sin dal 2008 con la triste convinzione che allora, come ora, si preferisce fare chiacchiera inutile invece di affrontare il problema all’origine, un modo per il quale  centinaia di migliaia di persone, sedotte e abbandonate, si sarebbero potute salvare dalla strage.

 

La strage degli innocenti

Non ci voleva barcone una mente eccelsa o un oracolo o un indovino per capire che la tragedia era annunciata da tempo e si poteva evitare.

Io ho fatto dei migranti un problema personale e la mia rabbia aumenta quando penso all’inettitudine dei vari personaggi che sono chiamati a tutela della Res Publica che invece si prostituiscono senza pudore.

Di seguito trascrivo tre articoli miei e di altri autori  che la dicono lunga sulla tratta degli immigrati. Gli scritti portano date ormai passate alla storia : 2008/ 2009/2010. Siamo nel 2013 e ancora il civilissimo e avanzato mondo occidentale permette che questa sporca storia continui. Tutti siamo responsabili e colpevoli: tutte le istituzioni erano chiamate ad intervenire: i  politici, invece di chiacchierare a vuoto e la Chiesa invece di predicare pace e perdono e accoglienza e solidarietà. Bisognava intervenire energicamente nei paesi d’origine ad informare le genti perchè non si facessero abbindolare con falsi miraggi da criminali delinquenti senza scrupoli che lucrano sulle disgrazie  sociali. Adesso siamo tutti addolorati, ma, extrema ratio, se avessimo rimandato indietro i clandestini, avremmo evitato questo scempio. E invece, con tanta ipocrisia e buonismo, non vogliamo guardare aldilà del nostro naso per riempirci la bocca di carità. Personalmente,poi,  avrei preferito, e l’ho detto da subito, che il Papa prima che a Lampedusa, si fosse recato nei paesi d’origine  della gente che parte per cercare di spiegare la verità in modo da arginare il commercio di esseri umani indifesi, ed evitare queste terribili stragi. E  invece preferiamo, sempre e comunque,  piangere i morti invece di cantare la vita. Che  rabbia e quanta tristezza!

Esame di coscienza

luglio 29, 2008 di mimmasuraci | Modifica

http://www.repubblica.it/2008/06/sezioni/cronaca/naufragio-6giu/naufragio-6giu/stor_8773729_49590.jpgGiunge in queste ore l’ ennesima notizia di tragedia nel mare di un barcone di clandestini. Come si fa a restare indifferenti di fronte ad una vera e propria deportazione di esseri umani , che vengono strappati ai loro luoghi per finire in fondo al mare, le cui acque sono dense e sporche di chiacchiere e teoremi socio-clericali ? Sin da piccola mi hanno insegnato di fare ogni sera l’ esame di coscienza secondo i precetti della dottrina cristiano-cattolica. Ragion per cui ho sempre pensato che i tutori della nostra religione fossero i primi a sottoporsi all’ autoanalisi serale quotidiana. Ora, qui, però, c’è qualcosa di stonato. Quando nei giorni scorsi il Vaticano ha levato la propria voce per chiedere comprensione verso gli immigrati, ho avuto un moto di stizza : come mai la Chiesa non si adopera con tutte le proprie forze per arginare questo fenomeno nei paesi d’ origine ? come mai la Chiesa, che si dice Universale, non grida contro questi crimini efferati ? e come mai la Chiesa ripetutamente invita l’ italia e il suo Governo a tollerare ed accogliere ? Dunque, mi è venuto spontaneo pensare e commentare con gli amici sia questo aspetto, sia un altro intervento temporaneo che la Chiesa, a mio avviso, potrebbe e dovrebbe fare, cioè aprire le porte delle chiese agli immigrati. Dopo qualche giorno, guarda caso, si verificano i fatti di Napoli, con l’ “occupazione” del Duomo da parte degli immigrati; e cosa succede ? Senti, senti; il Cardinale Sepe chiede l’ intervento delle forze dell’ ordine per liberare la Cattedrale. Anche la Chiesa,dunque, si trova in uno stato confusionale e pratica la filosofia dei Padre Zapata , cioè predica in un modo e razzola in un altro . Come dire non ha oer caso dimenticato di fare l’ esame di coscienza prescritto dai suoi precetti ?

Un consiglio capovolto

Il Consiglio d’ Europa va in ordine sparso per assecondare alcuni Paesi,piuttosto che applicare le regole in maniera obiettiva.A mio avviso, poi, questi poveri disperati che si imbarcano senza sostegno non possono essere assimilati ai rifugiati politici. Queste popolazioni andrebbero tutelate nei luoghi d’origine soprattutto con istruzione e informazioni concrete sullo stato reale delle situazioni cui vanno incontro abbandonando il proprio territorio.I viaggi della disperazione, si sa, sono gestiti da affari vergognosi di sfruttamento degli emarginati ed è proprio in questa direzione che la UE dovrebbe intervenire con decisione e fermezza, insieme alla Chiesa, la quale si limita a chiacchierare implorando il rispetto dei diritti della dignità della persona umana senza vedere che tali diritti sono violati proprio dai falsi miraggi con cui viene illusa molta povera gente che paga profumatamente per andare incontro alla morte e a disagi enormi, causando, inoltre, grave nocumento ai Paesi di destinazione. Lo stato italiano, come tutti gli altri, dovrebbe avere riconosciuto e tutelato il diritto di poter richiedere mano d’opera da paesi stranieri in relazione alle proprie esigenze e ai propri bisogni e la clandestinità dovrebbe essere riconosciuta e condannata come reato dal diritto internazionale.Di fatto pare di vivere in una società capovolta dove il carnefice diventa vittima e la vittima carnefice.

Sepolti vivi nel deserto

martedì 23 febbraio 2010

Conoscere l’Africa 5: Libia, l’inferno dei migranti

African Market di Kufra, sudest della Libia, a poco più di mille chilometri da Bengasi. Il confine con l’Egitto e il Sudan è molto vicino. E’ qui uno dei punti preferiti dai trafficanti che contrattano con i migranti che cercano di lasciare il paese libico nel tentativo di approdare in Italia. L’obiettivo prescelto è la costa del nostro Paese. Malta, con il rischio di diciotto mesi di permanenza in attesa di decisioni, è vista come fumo negli occhi. All’isola dei cavalieri preferiscono la Sicilia, con i suoi punti d’approdo più caldi: Lampedusa, Pozzallo o Portopalo di Capo Passero, poco importa. Kufra è uno dei punti più sensibili per lo smistamento dei clandestini. Questa zona, in passato, ha rappresentato uno snodo importante per le carovane di mercanti che arrivavano dal Ciad, da Borkou o da Ouaddai, intenzionate a raggiungere la costa mediterranea.

A Kufra giungono soprattutto i migranti irregolari che partono dai paesi del Corno d’Africa, Somalia soprattutto, ma c’è anche un consistente afflusso di etiopi ed eritrei. A fare da apripista ai mezzi carichi di clandestini sono spesso i poliziotti libici, come si evince dalle testimonianze rese alle autorità italiane da alcuni somali sbarcati di recente in Sicilia. “Spesso, al fine di evitare problemi con i componenti delle organizzazioni criminali che lucrano sul traffico dei clandestini – afferma un cittadino di Asmara – sono i poliziotti a scortare i mezzi con la gente a bordo e questo dietro una dazione di denaro. E non è detto che tutto fili liscio”.

La struttura di Kufra è già stata oggetto di varie ispezioni, condotte da delegazioni dell’Unione Europea. Il centro di smistamento è stato definito “un punto di partenza al di sopra delle leggi ed in cui si concretizzano i primi contatti tra le organizzazioni criminali che fanno affari d’oro sui viaggi della speranza”.

Il sistema libico di detenzione degli irregolari

Le forze di polizia italiane hanno individuato tutti i passaggi e le strategie della holding criminale che agisce dietro il traffico di esseri umani da immettere sopra le imbarcazioni dirette verso le coste della Sicilia. Quando i camion, carichi fino all’inverosimile di persone, vengono fermati in un posto di blocco, le possibilità sono due: o accordarsi immediatamente con le forze di polizia locali, dietro pagamento di una tangente per il lasciapassare, oppure il camion fa inversione di marcia tornando verso il confine sudanese in attesa che i riottosi si convincano a sborsare il denaro.

Tra l’altro, se l’autista del camion decidesse di scaricare tutti nel deserto, il rischio di morire di sete sarebbe molto elevato poiché spesso si scelgono tragitti in cui per centinaia di chilometri non si trova che sabbia. Una strategia per indurre tutti i migranti a pagare senza battere ciglio. Chi non ha pagato prima, alla minaccia di essere riportato in Sudan, paga dopo. E chi non ha i soldi viene arruolato nel mercato del lavoro nero oppure nella prostituzione, con la speranza di raggiungere la cifra utile a pagarsi il posto in barca.

Nel centro di Kufra i metodi sono degni della peggiore “macelleria argentina”. Ci sono testimonianze agghiaccianti, di persone transitate da questo luogo infernale. Un somalo poco più che ventenne parla di Kufra come di “un luogo di morte, dove guardare in faccia chi opera all’interno del centro può scatenare una reazione bestiale fino a riempirti di botte”. Il rancio quotidiano è da Kolyma siberiana: venti grammi di riso in bianco, se vuoi il pane devi pagare a parte. Ed il riso viene servito molto caldo così da far scottare le mani mentre i carcerieri osservano compiaciuti. E’ un sistema per provocare ulteriore umiliazione. E quando entrano le “squadre della morte”, stupri e violenze diventano all’ordine del giorno. Un ex soldato eritreo, scappato dal suo paese, ha raccontato il modo in cui venivano stuprate le donne davanti ai rispettivi mariti, mentre all’interno delle celle la puzza di umido ed escrementi rendeva l’aria irrespirabile. Kufra, tuttavia, non è l’unico centro di detenzione per immigrati irregolari.

In Niger c’è Dirkou ma si potrebbero citare anche Oujda (in Marocco), Nouadhibou (Mauritania) e l’algerino Tinzouatine, definiti “i posti della tratta umana e dello sfruttamento della condizione di migranti clandestini lungo le rotte del Sahara”. Alcune organizzazioni umanitarie hanno stimato questo business in circa venti milioni di euro l’anno, cifra che comprende anche le estorsioni e le razzie. Tolta la parte spettante ai passeurs ed ai militari, il resto va in tasca alle organizzazioni criminali operative nel Nord Africa.

“Se non hai soldi e non ti danno un lavoro, resti bloccato per mesi e mesi rischiando di impazzire”, afferma un somalo approdato a Portopalo di Capo Passero (Siracusa) nei mesi scorsi. Il gruppo criminale più attivo al momento è quello libico, comprendente anche componenti sudanesi ed un supporto di soggetti egiziani, impegnati soprattutto nella parte finale della filiera, quella della traversata del Canale di Sicilia.

Per raggiungere la somma necessaria a pagarsi il “posto” nella carretta del mare, le donne lavorano come domestiche (quando sono fortunate), gli uomini invece trovano da fare come meccanici o muratori. Più che altro si tratta di lavori di trasporto sabbia o di costruzione di mattoni che vengono pagati pochi spiccioli a fronte di tanta fatica e a patto che il lavoratore stesso rimedi una carriola, altrimenti niente da fare.

In Libia c’è anche un sistema di carceri mascherati da centri di permanenza. Ankar è quello situato all’interno dell’oasi di Kufra. A volte, il camion che trasporta i detenuti si ferma per diverse ore sotto il sole, senza alcun motivo. L’aria all’interno del mezzo si fa presto irrespirabile, il caldo diventa subito soffocante. E più la gente grida più i libici prolungano la sosta mentre la puzza di escrementi e sudore si fa sempre più forte di minuto in minuto.

Parecchie persone vengono arrestate a Bengasi o a Misurata. Qui, quando qualcuno scappa, la reazione della polizia è immediata. Le retate successive portano nel centro di detenzione un numero nettamente superiore di persone rispetto a quelle che si sono date alla fuga. E poco importa se tra coloro che vengono fermati vi siano quelli effettivamente fuggiti. Gli aguzzini sono imperterriti: giorno per giorno vengono allestite squadre di detenuti impegnate nella costruzione di altre strutture interne al campo di detenzione.

Chi non ce la fa, viene dislocato al lavaggio delle macchine dei poliziotti. Terminata la detenzione a Misurata, il migrante pensa di essere pronto per l’imbarco in uno dei tanti natanti pronti a prendere il largo, facendo rotta per l’Italia. “Ed invece – dichiara un cittadino eritreo – le autorità libiche decidono di riportarti a Kufra perché sei stato accusato di immigrazione clandestina e quindi sei passibile di espulsione. In realtà, c’è già l’accordo per venderti a qualche mediatore che, dopo aver incassato la somma stabilita ti rispedisce a Bengasi”.

Così, avanti ed indietro tra Bengasi, Tripoli e Kufra per dissanguare economicamente chi spera di partire via mare, perché ad ogni nuovo arresto si deve pagare. Del resto, dopo il petrolio, lo sfruttamento dei clandestini è una voce molto florida per l’economia libica e il migrante irregolare è considerato come “una quantità di dollari in movimento”. La vendita ai contrabbandieri dei detenuti, da parte delle forze dei polizia, avviene direttamente dal carcere. Gli acquirenti possono anche essere sudanesi. Se “l’acquistato” non ha i soldi, lavora come schiavo fino ad estinguere il debito. I più fortunati, a volte, giungono a Tripoli in uno sgangherato taxi dove si va in cinque o sei, sfruttando anche il bagagliaio. Nel quartiere dei mercanti di uomini avviene la contrattazione. Di notte la polizia mette in atto le retate e i clandestini sono sempre pronti a darsi alla fuga.

Chi ha bisogno di andare in ospedale, per non correre il rischio di essere denunciato, deve trovare un libico che, dietro pagamento, ti presta la sua identità. E per chi è affetto da malaria o, peggio ancora, da Hiv c’è il rischio di un’iniezione letale. “In Libia, l’immigrato irregolare deve guardarsi da tutti, – ci dice Mahmoud, giovane proveniente da un villaggio sudanese – se riesci ad evitare le retate dei poliziotti, spesso finisci picchiato e derubato dalla gente del posto che ti pedina sistematicamente appena capisce che sei un irregolare e che hai dei soldi”.

Superata la fase della detenzione, scampato alle retate e alle aggressioni, racimolata la cifra per pagare l’imbarco su un barcone, il migrante irregolare contatta gli intermediari che molto spesso sono etiopi o eritrei che lavorano per un trafficante locale. Il passaggio dall’inferno libico non è ancora finito, la disperazione è pari alle sofferenze e con la consapevolezza che, pur sopravvivendo al viaggio, non sei niente, solo un immigrato irregolare.

“Questo è peggio della prigionia nel tuo paese ma si parte perché non hai alternative, perché nel mio paese, la Somalia, l’inferno ha una faccia ancora peggiore”. Nella parole di Mahmoud sembra di intravedere la realtà descritta magistralmente da Varlam Salamov ne “I racconti della Kolyma”, libro che nei primi anni Ottanta ha fatto conoscere al mondo l’orrore del sistema concentrazionario sovietico. Le angherie delle guardie, la denutrizione, l’assoluta mancanza di umanità, l’essere quasi in un mondo a parte, le persone ridotte a cose, schiavizzate, vendute e rivendute, senza diritti e solo con obblighi per evitare maltrattamenti e percosse.

In uno dei racconti di Salamov, intitolato “La carriola”, l’autore evoca l’orrore e l’oppressione del lavoro in miniera dove la carriola è un simbolo, come per i migranti irregolari che in Libia cercano questo attrezzo per poter lavorare come muratori e sperare di racimolare il necessario per ottenere un posto in barca e partire per l’Italia.

Le organizzazioni criminali

Gli investigatori italiani ipotizzano una riorganizzazione a breve della componente criminale libanese molto attiva nel traffico di immigrazione clandestina. Questi trafficanti di uomini si sono spostati da un pezzo verso Grecia e Cipro ma potrebbero tornare a guardare alle coste nordafricane. Dalla seconda metà del 2009, in seguito agli accordi del governo italiano con Gheddafi, gli sbarchi hanno registrato un calo. Il leader libico, del resto, continua ad usare il tema immigrazione come una pistola puntata nei confronti dell’Europa e dei paesi del bacino mediterraneo in particolare.

Le rotte cambiano

Per evitare il dispositivo di controllo congiunto italo-libico, i trafficanti hanno modificato le rotte della traversata. Uno dei punti preferiti, da un po’ di tempo a questa parte, è Zliten, non molto distante da Tripoli. Si punta verso il confine egiziano e la navigazione avviene più ad est, verso le coste greche, per poi virare in direzione della Sicilia allungando il tempo e i rischi della navigazione. Questo cambio di strategia trova conferma nelle riserve di carburante che le forze dell’ordine italiane trovano a bordo dei barconi appena sbarcati, cresciuti da 5-6 contenitori a 10-12 taniche di gasolio. “Abbiamo notato, dalla metà del 2009 in avanti, – afferma Carlo Parini, sostituto commissario e responsabile del Gruppo interforze di contrasto dell’immigrazione della Procura di Siracusa – che il numero di sbarchi si è drasticamente ridotto. E’ cresciuto, però, il numero delle persone caricate sulle imbarcazioni. Di recente, in provincia di Siracusa, abbiamo avuto arrivi di oltre duecento migranti in un solo sbarco”.

A conferma di questo, va rilevato il caso del barcone con 250 migranti, tra cui parecchie donne e bambini, rimasto a lungo a fare la spola nel mare in tempesta tra il 24 e il 26 di ottobre scorso, a largo delle coste siciliane, assistito da una nave petroliera che ha lanciato viveri ed acqua a bordo, non potendosi avvicinare per paura di speronamenti, considerate le avverse condizioni meteo-marine.

Anche in questa occasione, si è registrato il comportamento “pilatesco” di Malta che avrebbe addirittura autorizzato le forze libiche ad effettuare il prelevamento dell’imbarcazione. Intervento, poi non concretizzatosi, che poteva rappresentare un precedente in grado di andare ben oltre le soglie del “respingimento”, non tralasciando la circostanza riguardante la presenza a bordo di eritrei e somali, sicuramente dei potenziali richiedenti asilo. Tra l’altro, tornare in Libia dopo il respingimento equivale, per chi incappa nelle maglie del dispositivo di pattugliamento, a ricevere un biglietto di ritorno verso l’inferno.

Il viaggio di Adam

Tra i tanti che sono transitati dalla Libia dopo aver attraversato il deserto, vedendo la morte in faccia, c’è Adam, un giovane ivoriano di 26 anni. Lo incontriamo in Sicilia, in una struttura per richiedenti asilo. La maglietta del Bayern Monaco è quasi una seconda pelle. Attende lo status di rifugiato, che gli permetterà di cercarsi un lavoro, assistito da un avvocato siciliano che gli ha assicurato il patrocinio legale in modo del tutto gratuito. La sua storia è simile a quella di tanti africani che, dopo aver attraversato il Sahara e il tratto di mare che separa l’Africa dalla Sicilia, giungono in Italia con l’intenzione di costruirsi un futuro.

«Ho fatto studi di perito meccanico, puntavo a laurearmi ma la guerra nel mio paese mi ha costretto a scappare. Mio padre è morto e io non avevo altre possibilità: o fuggire o finire arruolato. Ho scelto la prima opzione». Adam racconta il suo passaggio del deserto. «Un primo tratto lo abbiamo fatto con un furgone poi, quando la sabbia si è fatta più profonda, siamo stati scaricati e da lì in avanti abbiamo proseguito a piedi. Con me avevo solo un litro d’acqua che avrei dovuto far bastare per circa una settimana, tanto era il tempo stimato per l’attraversamento della zona desertica». Alcuni suoi compagni di viaggio non ce l’hanno fatta. «Due li ho visti morire e li ho dovuti abbandonare lì, nell’immensa distesa di sabbia. Dovevo proseguire, cercare di giungere al più presto in Libia dove sarebbe cominciata la seconda fase del mio viaggio verso l’Italia ».

Nel paese libico, Adam ha dovuto rinnegare la sua religione per poter trovare un lavoro. «Io sono un cattolico ma in Libia ho dovuto dire di essere un musulmano altrimenti non ti davano nemmeno il diritto di parlare. Ho incontrato gente talmente priva di umanità da non sembrare nemmeno umana». Con altri 27, dopo alcuni mesi di duro lavoro, Adam è stato caricato in una piccola imbarcazione diretta verso le coste italiane.

«Il mare fa meno paura del deserto. Se hai superato il Sahara rimanendo vivo, è già una grande cosa. Prendere il largo a bordo di una qualsiasi imbarcazione è il segnale che stai per farcela, che il peggio è ormai alle spalle, che ti sei lasciato l’inferno libico». Il passaggio in mare non è certo una agevole. Sei costretto a bere acqua salata, l’esposizione continua al sole ti sfianca, gli schizzi di carburante sul corpo sono strali acuminati. L’approdo è sinonimo di salvezza. Adam guarda la piccola imbarcazione che lo ha condotto in Sicilia. «Da sei mesi e mezzo mia madre non ha notizia di me. – aggiunge Adam con una punta di commozione – Le ho inviato una lettera, spero la riceva. Vorrei rimanere in Sicilia, lavorare, avere tanti amici e studiare la costituzione italiana e le leggi del vostro paese. Così posso diventare un buon cittadino. Intanto, ringrazio Dio per avermi fatto superare tante difficoltà».

Il suo è lo sguardo di chi, nonostante tutto, spera nel futuro. Sua madre non sa ancora che il figlio si trova in Sicilia dopo aver attraversato l’inferno della crudeltà e dell’assoluta mancanza di scrupoli, dove l’uomo diventa il peggior nemico dei suoi simili. Come scrisse uno scrittore, nel commentare una delle tante traversate della speranza nel Mediterraneo, “abbiamo, se l’abbiamo, la sopravvivenza ad una catastrofe, lo scampo ad un naufragio. L’esito non è mai una salvezza realizzata”.

Gli investigatori italiani: “Il nostro ruolo è anche garantire alti livelli di soccorso e accoglienza”

Parla Carlo Parini, responsabile del Gruppo interforze di contrasto all’immigrazione clandestina della Procura di Siracusa.

Quattro magistrati e sette esperti in tema di immigrazione. Questi i numeri del “Gruppo interforze di contrasto dell’immigrazione clandestina”, costituito nell’ottobre del 2006 dalla Procura di Siracusa, retta dal procuratore Ugo Rossi, unica realtà di questo tipo operativa in Italia. Un pool proveniente da diverse istituzioni dello Stato, coordinati dal sostituto commissario di polizia Carlo Parini, funzionario con una vasta esperienza internazionale. “Nel nostro lavoro investigativo non manca l’aspetto del soccorso. Anzi, spesso siamo impegnati a fianco dei volontari siciliani che assicurano la prima accoglienza e soccorso dei migranti che approdano da queste parti. Un impegno che, per quanto mi riguarda, considero superiore a quello che viene assicurato in altri paesi, ad esempio, come la Spagna”. Il gruppo rappresenta il fiore all’occhiello nelle investigazioni sull’imponente traffico di clandestini nel Mediterraneo. Tra i successi riportati, l’aver sgominato una complessa organizzazione criminale che aveva organizzato il traffico di clandestini cingalesi, attraverso il canale di Suez, poi introdotti in Sicilia e su tutto il territorio nazionale. Interpreti di lingua araba ed una vasta rete di informatori collaborano con questa struttura. Il lavoro del gruppo interforze continua anche dopo gli sbarchi, bisogna identificare e inserire nel data-base tutti gli immigrati, la Procura di Siracusa è così un vero punto di riferimento in Italia, la memoria storica. Parini ha contribuito a riconoscere soggetti che erano già stati identificati ed espulsi, che tornano con il sistema degli alias (utilizzo di altri nomi).

Sergio Taccone, in “Popoli e Missione”, gennaio 2010

Sergio Taccone, giornalista, scrive per il quotidiano La Sicilia e per il mensile delle Opere Missionarie Popoli&Missione. Dal 2001 segue gli sbarchi di migranti nella Sicilia sud-orientale. Nel 2009 ha vinto il Premio Internazionale di Giornalismo “Maria Grazia Cutuli”. Autore di un libro inchiesta (Dossier Portopalo, il naufragio fantasma) sulla più grave tragedia nel Mediterraneo del secondo dopoguerra: il naufragio del Natale ’96 in cui persero la vita quasi 300 migranti cingalesi, indiani e pakistani. Dal libro di Taccone è stato tratto anche il documentario Il viaggio di Adamo, realizzato nel 2009.

  • Reportage di Oggi. Le immagini che mostrano come si muore nel deserto della Libia

L’inferno dei migranti

Un testimone racconta cosa succede dove i clandestini sono solo una merce. Anche da buttare, se serve

Un cimitero senza lapidi. E’ il deserto della Libia, attraversato dalle rotte dei migranti. Qui «sono i morti che cercano i vivi» scrive Gianni Passavini, in un reportage che esce mercoledì sul settimanale Oggi. «Li trovi senza cercarli. Passi col tuo fuoristrada e lì, dove tutto è sabbia color ocra, vedi spuntare una camicia azzurra, un lembo che sventola, quasi a voler segnalare una presenza». E’ quella di un ragazzo nero disteso nella sabbia. Uno dei tanti che hanno perso la vita, non solo la speranza di cambiarla. Molti sono anche quelli che tentano di ritornare al loro paese, dopo essere stati intercettati in mare da qualche nave militare e riconsegnati al loro destino africano, che ripassa per forza dal deserto dalla Libia. Sempre che riescano a sfuggire ai centri di detenzione predisposti da Gheddafi.

Il deserto dei migranti Il deserto dei migranti Il deserto dei migranti Il deserto dei migrantiIl deserto dei migranti Il deserto dei migranti Il deserto dei migranti Il deserto dei migranti

I VIAGGI DI RITORNO – Da quando nello scorso marzo è stato firmato l’accordo tra Italia e Libia per il via ai respingimenti in mare, il flusso di ritorno è aumentato. Soprattutto di quelli che arrivano da paesi in guerra, che prima confidavano di ottenere lo status di rifugiati. Oggi ha raccolto la testimonianza di un italiano che si trova spesso ad attraversare il “cimitero senza lapidi”. E’ lui a spiegare come questo obitorio senza confini assorba un numero di morti che nessuno conosce. Dopo qualche giorno la sabbia seppellisce gli uomini neri senza nome. Ma se uno arriva in tempo, prima che il deserto nasconda per sempre queste tracce, vede “i morti che cercano i vivi”. E, se la fortuna ha pietà, è anche possibile salvarne anche qualcuno. «Il camion su cui viaggiavano si è rotto – spiega il testimone – l’abbiamo anche visto. C’è sempre una macchina che segue i camion di clandestini, con tutta probabilità ha caricato gli autisti, abbandonando gli altri al loro destino». Ci sono anche le immagini di un video girato sul posto, a “illustrare” il racconto. I migranti non erano morti da molto tempo. «Due di loro erano ancora vivi – spiega il testimone italiano – ma completamente disidratati. Li abbiamo trasportati ad Al Gutrun e li abbiamo salvati». Sono tantissimi gli incidenti che coinvolgono i camion di clandestini. Ma quasi mai nessuno lo viene a sapere. Sono stracarichi di cose e persone, oltre ogni logica e contro ogni equolibrio: basta una buca o un dosso e il viaggio della speranza, o della fuga, si trasforma in morte sicura.

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LA FEROCIA DEI TRAFFICANTI – Chi gestisce questi flussi di dannati ha il senso degli affari, e solo quello. Gli introiti dei viaggi della speranza sono una miniera di soldi e non si può sgarrare. Se qualcuno cerca di fregare questi trafficanti è finito. In altre immagini pubblicate dal settimanale si vedono due ragazzi presi a bastonate, cosparsi di benzina e bruciati vivi. Loro non sono nemmeno arrivati a morire sotto la sabbia.

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Non l’amore, non i soldi, non la fede, non la fama, non la giustizia, datemi la verità!» [Henry David Thoreau]

 

 

La libertà che ti uccide

Cosa spinge un ragazzo ad affrontare imprese estreme,anzi impossibili.

Un vero e proprio pugno nello stomaco. Diverse volte sono stata tentata di abbandonare la lettura di questo libro, che trovavo inutile e, in un certo senso noiosa, anche perchè lo stile dell’autore non è dei miei preferiti.  Poi, però quella solita sfida per la quale devo   portare a termine un lavoro comunque iniziato, e la curiosità che mi stimola e cercare il perchè di tutto, mi hanno fatto continuare; ma fa male, sì questa storia vera mi ha fatto sentire male. Spesso quando leggo un libro mi capita di immedesimarmi in qualcuno dei suoi personaggi, e qui ho sofferto insieme a Chris il suo dramma, umano, esistenziale, fisico e morale. Ahimè.chris

Un giovane che ama la montagna, che ha imparato a conoscere sin da piccolo nelle arrampicate con il suo papà. Buona famiglia della borghesia  americana, deve ubbidire, come si conviene, a completare gli studi, che alterna con periodi di escursioni estreme in luoghi quasi inaccessibili, che per Chris assumono un fascino inquietante. Le escursioni si susseguono e ormai in solitario per vivere lontano dalla società consumistica, a contatto della natura, della quale il giovane si sente parte integrante fino al midollo, e cerca il percorso sempre più difficile liberandosi via via della zavorra della vita quotidiana. Alterna periodi di stasi adattandosi, nel luoghi che incontra sulla sua strada, a fare qualsiasi lavoro per procurarsi strumenti indispensabili per le arrampicate e un pò di cibo, il minimo indispensabile perchè cerca di alimentarsi con prodotti spontanei che reperisce lungo i sentieri e per i quali si è fatto una discreta cultura scientifica. Abbandona, dunque, strada facendo, l’automobile, il telefono, la bussola e vuole riuscire a cavarsela da solo. Purtroppo, dopo lunghe sofferenze muore in totale solitudine al riparo in un vecchio autobus abbandonato. Kraukauer si sente particolarmente attratto da questa storia, anche perchè pure lui ama la montagna e le escursioni estreme, con tutti i relativi rischi, e ricostruisce la storia con riferimenti ad altre simili; rivive e fa rivivere al lettore la vita tormentata di questo giovane che cerca e spera di trovare nella realizzazione delle scalate impossibile la sua vera identità, la sua affermazione come persona senza se e senza ma, aldilà di ogni ragionevole dubbio. Viene fuori il ritratto di un ragazzo riservato, intelligente, preparato, buono, educato, che suscita simpatia nelle persone che incontra nel suo percorso e con molte delle quali rimane in contatto epistolare, anche se discontinuo a causa del suo peregrinare. Secondo l’autore la morte può essere sopraggiunta per avvelenamento di alcun semi che a poco a poco portano alla morte e sui quali Chris probabilmente non era abbastanza informato o avrà confuso con altri commestibili. E però se avesse avuto con sé anche solo la bussola avrebbe capito che poco lontano dal luogo in cui si trovava c’era la via della salvezza e invece ha potuto solo annotare sulle pagine sgualcite degli inseparabili, quelli sì insieme alla chitarra,, libri che aveva portato gelosamente con sé, in qualche modo la sua sofferenza.nelle-terre-estreme

In questo suo ultimo viaggio Chris non aveva avvisato la famiglia, con la quale ha voluto tagliare ogni rapporto confidando solo  alla sorellina, alla quale è legatissimo, la sua intenzione di partire all’avventura. Per quale motivo ? Perchè in suo percorso nella natura precedente, in un centro abitato dove si è fermato a soggiornare per qualche giorno, ha appreso che il suo papà prima di divorziare dalla prima moglie aveva avuto una doppia vita, tanto che lui Chris, ha un fratello coetaneo avuto dal suo babbo con la prima compagna. Questo fatto fa esplodere nel giovane un senso di indignazione e di rabbia e di umiliazione nei confronti di entrambi i genitori, non tanto per la storia in se stessa, quanto e soprattutto per il fatto che avrebbe voluto, preteso, e dovuto esserne messo a conoscenza direttamente dai propri genitori. Parte verso l’ignoto, quindi, il giovane Chis, nascondendosi spesso, forse anche da se stesso, con un nome falso, per cercare la libertà, libertà dal giogo degli stereotipi di una cosiddetta civiltà avanzata, dagli orpelli di una famiglia dalla quale si sente tradito, e  che come una zavorra esistenziale  pesano sulle spalle e sull’anima. Perchè qualsiasi sia la verità è mille volte meglio delle bugie meschine e miserabili che offendono la dignità della persona umana. Si sente tradito Chris nei suoi affetti più cari senza alcuna  possibilità di riscatto ; tradito e ferito nei suoi sentimenti più nobili e profondi e intimi. Deve arrivare in cima Chris per  sentirsi finalmente libero e felice, deve realizzare questo sogno con il quale purificherà il suo spirito dalle ingiustizie patite. E purtroppo, vi rimane impigliato, tradito anche da madre natura. Eppure ci aveva creduto, e vi si era affidato completamente  con la certezza che quella madre non l’avrebbe mai ingannato. Senza speranza ?

 

Inevitabile, allora, il richiamo al solito ed eterno conflitto generazionale  e al disagio vissuto spesso in famiglia, esaltato da molti autori e in maniera magistrale da Kafka con la Metamorfosi, per il quale molti giovani, in un modo o nell’altro rinunziano alla vita.

 

 

 

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Sta entrando sempre più nel vivo la campagna elettorale e ormai in vista delle  presidenziali è boom di quotazioni nei siti dov’è possibile scommettere sulle elezioni americane in cui il presidente uscente democratico Barack Obama e lo sfidante repubblicano Mitt Romney si sfideranno per la Casa Bianca. I due sono sempre più “testa a testa” secondo i più recenti sondaggi che vedono Romney in vantaggio sul presidente Obama, almeno secondo il sondaggio giornaliero di Rasmussen, in cui Romney ha il 48% delle preferenze contro il 44% di Obama. Per Gallup, invece, Obama ha il 47% e Romney il 46%. Secondo Ipsos-Reuters,, infine, i due candidati sono pari con il 45%. Invece secondo paddypower.it, Obama è in netto vantaggio (1.44) mentre Romney rimane indietro, a 2.65.
Intanto negli Usa i dati sul mercato del lavoro saranno resi noti venerdì: gli analisti stimano che saranno creati in agosto 125.000 posti di lavoro, meno dei 163.000 di luglio, con un tasso di disoccupazione fermo all’8,3%. Dalla Seconda Guerra mondiale nessun presidente è stato rieletto con una disoccupazione oltre il 6%. Unica eccezione Ronald Reagan con un tasso al 7,2%. Insomma, scommettere sul candidato repubblicano, alla luce degli ultimi sondaggi Usa, probabilmente potrebbe convenire e si può fare sui siti internet di scommesse in Italia.
Ed è di oggi la notizia che Romney supera il milione di ‘follower’ su Twitter, un importante traguardo che non gli consente, però, di raggiungere il presidente Barack Obama, che può contare su 19,2 milioni di ‘follower’.

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da «Io donna»

Le città del futuro: Florianópolis

L’isola della magia sfugge a tutti i cliché sul Sudamerica. Ed è stata ribattezzata «Silicon Valley sulla spiaggia»


Florianópoli (foto Lorenzo Castore)
Florianópoli (foto Lorenzo Castore)

La chiamano “Isola della magia”, ma la magia c’entra poco. A Florianópolis ha fatto tutto la natura, regalandole spiagge all’altezza dei Caraibi. E in quantità: puoi restare in vacanza un mese e cambiarne un paio al giorno. L’effetto è grandioso ma un po’ straniante: è il Brasile, eppure quelli che incontri hanno fisionomie familiari; la qualità della vita è alta, la criminalità bassa. Floripa, nomignolo locale, non risponde a nessuno dei cliché sul Paese. Il mistero degli abitanti? Presto chiarito: il 45 per cento discende da immigrati italiani, il 35 da tedeschi, l’8 da portoghesi delle Azzorre (i primi colonizzatori), il 5 da polacchi. Ne resta un altro: come è riuscito questo gioiello a rimanere così a lungo sconosciuto?

«È a un’ora di volo da San Paolo ma, fino a vent’anni fa, appena il venti per cento dei paulisti sapeva che è la capitale dello Stato di Santa Catarina e si trova nel Sud Est. Figuriamoci all’estero» racconta Gustavo Kuerten detto Guga, n.1 del tennis mondiale nel 2000-2001. «Quando ho cominciato a giocare da professionista, nel ’95, nessuno ne aveva sentito parlare. “Vivi in un’isola? Da solo?” mi chiedevano». Ora – un po’ per via di Guga, un po’ perché le informazioni corrono veloci su internet – le cose sono cambiate. Mentre il Brasile fa l’asso pigliatutto, tra i mondiali di calcio del 2014 e le Olimpiadi del 2016, Floripa il suo trofeo l’ha già portato a casa nel maggio 2009, battendo la concorrenza di Parigi, Johannesburg, Shangai e ospitando il Summit annuale del World Travel & Tourism Council, l’organizzazione mondiale per lo sviluppo del turismo.

Surfisti a Florianópoli (foto Lorenzo Castore)
Surfisti a Florianópoli (foto Lorenzo Castore)

C’è voluto l’appoggio del presidente Lula per convincere i vertici a sceglierla: nessuno la conosceva e temevano non avesse strutture… Sono rimasti meravigliati dal potenziale» spiega Luiz Henrique da Silveira che, come governatore dello Stato (lo stesso in cui nacque Anita Garibaldi), si è speso parecchio per pubblicizzarla e renderla attraente anche per gli investitori. «La vocazione di Florianópolis è il turismo ma si è praticato quello “predatorio”: soltanto durante l’alta stagione, da capodanno a febbraio». Il piano di Luiz XV – soprannome dovuto alla grandiosità delle vedute – prevede: maggior offerta culturale (a Santa Catarina c’è l’unica succursale della scuola di ballo del Bolshoi di Mosca, oltre a 14 teatri) e diversificazione. Come gli investimenti nel campo delle tecnologie (un esempio: è stata creata qui l’urna elettorale elettronica, che scongiura brogli e garantisce risultati istantanei), tanto che qualcuno l’ha definita “una Silicon Valley sulla spiaggia”. Di strada c’è da percorrerne (solo l’11,9 per cento dei turisti arriva dall’estero, per dirne una), ma scommettere sul successo non è arrischiato. A Floripa incontri persone gentili, ti diverti, mangi bene (pure ostriche, di cui è uno dei massimi produttori mondiali) e spendi poco. Non sono ragioni sufficienti?

C’è pure la varietà di offerta: l’atmosfera è ancora abbastanza ruspante – il primo albergo di una catena internazionale, il Sofitel, è stato aperto nel 2006 – ma la zona di Jurerê, con i locali alla moda, soddisfa chi cerca nuove Saint-Tropez o Ibiza. Non a caso, i prezzi sono schizzati. «Jurerê è il metro quadrato più caro del Sudamerica» spiega il salernitano Attilio Colitti, proprietario dell’agenzia immobiliare Casa Florianopolis, dell’hotel Maratea e neo-viceconsole onorario d’Italia: un punto di riferimento per i connazionali nell’isola. «Conosco Jurerê da quando non c’era niente e sono favorevole alla trasformazione. Però bisogna pianificare bene affinché lo sviluppo non danneggi gli abitanti» mette in guardia Guga. «Per meritarsi il titolo di città del futuro non deve essere né lussuosa né glamour ma garantire la qualità della vita. E la tutela dell’ambiente». Giriamo la perplessità al governatore. «La sostenibilità ci sta a cuore: il 45 per cento del territorio è sotto tutela e ci sono leggi precise per regolamentare le costruzioni» assicura. «Il peggior virus non è l’influenza suina ma quello del pessimismo».

Maria Laura Giovagnini
15 ottobre 2009

Pittsburgh, città del futuro

Icona del passaggio post-industriale: dalla siderurgia a centro di conoscenza

Il succo della storia sta tutto in una risata; quella che è scappata ai cronisti della Casa Bianca quando hanno scoperto dal portavoce Robert Gibbs che il presidente aveva scelto Pittsburgh come sede del G20, il 24 settembre. Dopo Pechino, Berlino, Londra… gli alti papaveri delle potenze industriali e delle economie emergenti riuniti a Pittsburgh? Possibile – si saranno chiesti – che Obama si riferisca proprio a quella città della Pennsylvania che fu, buonanima, la capitale mondiale dell’acciaio e che poi, con il tracollo dell’industria pesante, nei primi Ottanta, è diventata il simbolo della fine di un mondo, madre di tutte le ghost cities, rottame metropolitano arrugginito per primo nella Rost Belt? Provocazione per provocazione, allora perché non scegliere Detroit? E giù risatine. Poi Gibbs ha gelato i reporters di palazzo, ancora mal sintonizzati con la genialità visionaria del presidente: «Pittsburgh è una straordinaria storia americana, è la città del futuro»

Difatti, dopo una mezzoretta di strada anonima e piovosa dall’aeroporto, quando esci dal Fort Pitt Tunnel e ti trovi a passare, in un secondo, dal nulla grigio e vuoto della galleria al faccia a faccia micidiale con down town Pittsburgh, piazzato lì come una prua scintillante in mezzo a tre fiumi, una Manhattan lilliput dai colori pa stello – insomma quando hai questo frontale da amore a prima vista – è matematico che ti domandi con la bocca aperta: ma come hanno fatto a tenere nascosta una cosa bella così? Che segreto custodisce questa gente? Appena oltre il ponte ho telefonato a Tony Buba, ex operaio delle acciaierie, figlio di minatori e oggi leggendario regista che dagli anni Settanta non ha mai smesso di girare documentari su Braddock, il suo quartiere proletario: «Qui non si vedeva niente, i lampioni erano accesi anche di giorno, il fumo degli altiforni offuscava tutto, i fiumi erano neri e putridi» ha risposto Tony. «Poi le fabbriche hanno chiuso i cancelli, la città s’è fermata, la nebbia ha cominciato a diradarsi e pian piano è comparso il sole. A quel punto la gente ha scoperto di vivere in una città meravigliosa, ha deciso che bisognava farla rinascere. Ed eccoci qui, con l’Economist che dichiara Pittsburgh addirittura la città più vivibile d’America. Sto cucinando un luccio che ho pescato stamattina, passa pure».

Non lasciatevi ingannare dalle parole: “Pitts”, 310 mila abitanti, è ancora chiamata “the Steel city”, qui ha ancora sede il sindacato metalmeccanico, la United Steelworkers union, così come la sua controparte, la UsSteel corporation; e va da sé che la gloriosa squadra di football resta quella degli Steelers. Ma l’acciaio orspa mai c’entra con Pittsburgh come la Ruhr con il carbone, roba dell’altro secolo. Ora questa è la città dei 35 college e università – Carnegie Mellon e University of Pittsburgh i fiori all’occhiello – delle nanotecnologie, della bioingegneria, hub ospedaliero guidato dall’Upmc, uno dei più importanti provider sanitari del mondo, leader nel settore trapianti, che dà lavoro a 50 mila persone con un giro d’affari di 5,6 miliardi di euro (e infatti lo Steel tower, il grattacielo più alto, è diventato l’Upmc tower). Il Wall street journal ha deciso di chiamarla “Roboburgh” scegliendo la robotica come marchio distintivo dell’eccellenza pittsburghese (300 solo le aziende-spin off nate dal settore accademico dell’informatica con fondi interamente privati). Come è accaduto? «Vent’anni fa, mentre la siderurgia spariva provocando un disastro sociale devastante, il grande capitale, le famiglie dei Carnegie, dei Frick, dei Mellon, degli Heinz non sono scappate con il bottino» racconta Luke Ravenstahl, 29 anni, il più giovane sindaco d’America; «ma hanno continuato a finanziare le università e le fondazioni culturali. Così si è innescato un processo virtuoso che ha permesso alla ricerca di concentrarsi su progetti vincenti che hanno fatto man bassa di fondi federali, capitali che hanno attirato ricercatori e altro capitale privato». Paul C. Wood, vicepresidente dell’Upmc spiega così la diversità e quindi la personalità tosta di Pittsburgh: «Qui non si insegue la palla, ma cerchi di piazzarti dove pensi che la palla arriverà. Non si vive alla giornata, puntando sulla bolla del momento, ma si investe pensando alla prossima generazione e senza chiedere aiuti pubblici. Insomma la mentalità è ancora quella operaia, anche se non ci sono quasi più operai».

L’allusione è alla recessione che colpisce gli Stati Uniti appena varchi i confini della contea e alle flebo di miliardi regalati da Washington all’industria di Detroit. Perché, se il ribaltone durato vent’anni è costato la fuga di centomila abitanti e il dissanguamento delle casse comunali, oggi- siccome qui costo della vita e quello delle case non erano drogati – a differenza del resto del Paese il prezzo degli immobili sale, c’è un boom nella riconversione dell’edilizia industriale con investimenti per quasi 2,8 miliardi di euro, la disoccupazione è ferma al 5 per cento e il rebranding della città come «il miglior posto d’America per le famiglie di giovani professionisti» (Newsweek), ha portato, solo quest’anno, quattromila under 30 laureati a ripopolare gli 89 quartieri sparsi sulle colline e lungo i fiumi di Pittsburgh. Obama non poteva che scegliere la Steel city, la città che doveva morire e che invece si gode il suo Rinascimento.

Marzio G. Mian
10 settembre 2009


corriere.it

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Giuliani e il radon dello Stretto  a S. Francisco

Progetto del ricercatore Giampaolo Giuliani per l’Area dello Stretto

Precursori sismici nel triangolo Capo d’Orlando Catania-Aspromonte
Il tecnico che previde il terremoto dell’Aquila presenterà a S. Francisco gli studi sul Radon
Franco Perdichizzi
Capo d’Orlando
Una rete di monitoraggio sullo Stretto di Messina che possa prevedere i terremoti in tempo utile per dare l’allarme e così salvare più vite umane possibili.
E’ lo studio portato a termine da Giampaolo Giuliani, il tecnico del laboratorio nazionale di fisica del Gran Sasso balzato agli onori della cronaca per le ricerche autonome portate avanti sul gas Radon che gli hanno permesso di prevedere con largo anticipo il disastroso terremoto in Abruzzo.
Lo studio-progetto sarà presentato alla comunità scientifica internazionale durante la 13° conferenza Nazionale dell’Asita, che si terrà a Bari dal primo al 4 dicembre prossimo. Il Consiglio scientifico della Federazione italiana delle Associazioni scientifiche per le informazioni territoriali e ambientali ha già accettato il lavoro di Giuliani che rappresenterà quindi il “clou” di un simposio cui parteciperanno i più noti ricercatori e scienziati italiani e stranieri.
Il lavoro di Giuliani, che proprio in questi giorni ha ricevuto l’invito per uno dei convegni più importanti del mondo nel campo della sismologia e cioè quello del 14 dicembre a San Francisco negli Usa, ha per titolo “Rete di monitoraggio per la prevenzione e previsione sismica Stretto di Messina, Reggio Calabria, Etna” e naturalmente basa le proprie certezze scientifiche sulle emissioni del gas Radon che fuoriescono dalla crosta terrestre e la cui velocità viene misurata dalle apparecchiature costruite dal ricercatore aquilano.
Giuliani ha elaborato un sistema di monitoraggio dei livelli di Radon, un gas radioattivo che viene liberato dal sottosuolo quando le faglie vengono sollecitate per poi divenire terremoti in superficie.
E’ una sorta di campanello di allarme che potrebbe avvertire dell’imminente sisma anche a distanza di 100-150 km ed anche con un anticipo di venti ore, a seconda dell’intensità del sisma. Dunque un lasso di tempo utile che può rivelarsi, vitale.
«La notte del terremoto che ha ferito a morte la mia città, L’Aquila – ci di dice – non sapevo più a chi rivolgermi, vedevo sui monitor di casa mia che la situazione stava precipitando e io non potevo fare nulla perché avevo ricevuto un avviso di garanzia per aver detto che ci sarebbe stato un terremoto ed ero intimorito. Avrei voluto uscire fuori e gridare ai quattro venti magari con un megafono di uscire da casa e salvarsi. Ho però telefonato ai miei amici, parenti, e sono riuscito a farli scappare. Ma il mio cruccio è stato di non aver potuto salvare quelle trecento vite di amici, conoscenti, aquilani» .
Il ricercatore poi, riferendosi ai suoi detrattori, dice: “Mi hanno appellato in mille modi diversi e tutti lesivi della mia dignità perché i terremoti non si possono prevedere. Non è assolutamente vero, perché ogni fenomeno, terremoto compreso ha una causa”. I precursori sismici (le apparecchiature di Giuliani che segnalano il Radon) del progetto che il ricercatore ha approntato per lo Stretto di Messina e per le aree vicine che sono comprese in un triangolo che ha come angoli Capo d’Orlando, Catania e l’Aspromonte, sono sette, ubicati a Capo d’Orlando , Catania, Taormina, Milazzo, Messina , Reggio Calabria e Scilla . Il Precursore sismico segnala l’anomalia della media di Radon 222 che fuoriesce dalla superficie terrestre. L’anomalia è prodotta dall’azione di carichi e scarichi di energia in un intervallo di tempo nella zona ipocentrale dell’evento. Il rilevatore, posto in superficie, evidenzia l’anomalia e invia un preallarme o un allarme sismico.
Giuliani che da dieci anni lavora al progetto insieme alla moglie ed ai figli aggiunge: «Quella notte (6 aprile 2009) il mio sismografo denunciava una forte scossa di terremoto e tutti potevano osservarlo on-line sul nostro sito e tanti l’hanno osservato e si sono salvati».
gazzeta del sud

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Il Carioca, piccolo fiume nei pressi di Rio De Janeiro, travolge in Sudafrica,  i  pomposi azzurri lasciandoli nel Lippo, sostanza viscida che li tiene appicciccati al letto ( sempre del fiume…)

Congratulazioni a James Costa amico iuessei che non ci pensava proprio; a noi, campioni del mondo, non  rimane che consolarci con  Fabio Caressa per il cuore che ha messo nella telecronaca

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di Elisabetta Durante *

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6 aprile 2009
Venerdi 27 marzo le macchine cominciano a segnalare un’attività anomala, com’era accaduto nel 2002, alla vigilia del terremoto di S. Giuliano, nel 2003 prima del sisma sui Monti Frentani, nel 2004 ad Ascoli Piceno ecc. I picchi arrivano giovedi 2 e venerdi 3 aprile.

Le misure effettuate dal tecnico dell’Inaf Giampaolo Giuliani nei giorni precedenti il terremoto dell’Aquila appartengono ad una serie di osservazioni iniziate parecchi anni fa e condivise con i fisici Victor Aleeksenco, direttore negli anni ’70 del laboratorio russo underground di Baksan, e Nicola Zaccheo, all’epoca ricercatore alla Caltech University di Pasadena (vedi Il Sole 24 Ore del 10-6-2005):
risale a otto anni fa, infatti, la messa a punto del primo apparato rivelatore, con cui si decide di analizzare il fenomeno delle emissioni del radon, un gas che si libera dal sottosuolo in particolari situazioni d’instabilità e che si sospetta legato ai terremoti.
Il fenomeno, va precisato, è già noto da tempo e ben descritto in un lavoro svolto da Chu King per lo U.S Geological Survey.

Ma la previsione dei terremoti è materia difficile, su cui ci si deve muovere con i piedi di piombo: se si annuncia un terremoto, bisogna anche dire quando, dove, quanto, e una generica stranezza nel comportamento del radon non basta. Anche a voler essere cauti, però, le misure di Giuliani sono tali e tante che un paese ad altissimo rischio sismico dovrebbe prenderlo in considerazione e lavorarci seriamente sopra.
Tutto si basa su un particolare algoritmo ed un rivelatore di tipo innovativo, derivato dalla Fisica delle particelle, che segnala gli spike-likes, picchi istantanei tipici del radon: picchi che sembra si siano sempre prodotti finora nell’area interessata e nell’imminenza di scosse (poi puntualmente registrate dall’Ingv).

Non è un caso che di mezzo ci sia la Caen, industria toscana con sedi operative negli Usa, che sui grandi esperimenti di Fisica ha costruito la sua fortuna. La Caen si è occupata per vari anni dell’ottimizzazione del sistema radon e dell’analisi dei dati, sperando di avviare un programma di ricerca con le autorità del settore e di sperimentare la tecnologia su scala maggiore: “La nostra idea –spiega il Presidente Marcello Givoletti- era quella di costruire una rete di sensori nei territori a più alto rischio. Ma dopo anni di lavoro, ci siamo dovuti arrendere: poiché la nostra proposta non aveva seguito, abbiamo deciso di sospendere gli sforzi e gli investimenti, e abbiamo affidato gli strumenti a Giampaolo Giuliani, restando però sempre al corrente dei dati, fino a quelli della scorsa settimana”.

A credere che la strada del radon sia degna di essere percorsa è anche Giacomo Cuttone, che presiede la commissione scientifica nazionale V dell’Infn: “Quello che serve per valutare l’efficacia del metodo e l’efficienza del sistema, è anzitutto una rete in grado di effettuare le misure del radon in continuità e su vasta area, e quindi un team interdisciplinare che integri competenze come le nostre nel campo dei rivelatori, con altre competenze tra cui quelle che fortunatamente il nostro paese possiede in campo geosismologico.”

(*) giornalista scientifica
DISTI, Distretto dell’Informazione Scientifica e Tecnologica

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GLI UCCELLI, LA VACCA E IL MAIALE

28, Aprile, 2009

Davide GIACALONE – http://www.libero.it

Un’epidemia s’aggira per il mondo: la moda delle epidemie. Ogni volta che un allarme si diffonde, su scala planetaria, l’attenzione di tutti si volge verso le organizzazioni sanitarie, le quali tranquillizzano il pubblico confermando la disponibilità di grandi scorte di farmaci, opportunamente rinfoltite per far fronte ad ogni peggiore evenienza. Ciò significa che le epidemie sono anche occasione per grandi affari. Passata qualche settimana, consumate le comparsate televisive dei presunti esperti, si vive e si muore esattamente come prima. Non essendo medico, ed essendo io stesso felice del fatto che, in caso di bisogno, potrò comprare quel che serve, spero che, anche questa volta, le cose vadano secondo il noto copione. La cosa migliore di una disgrazia, insomma, è che non capiti. L’impressione che qualcuno ci marci, però, è sgradevole. Il fastidio cresce, inoltre, quando si sentono dire cose poco sensate, oltre che ripetitive. Capita, insomma, che ci si sieda davanti al telegiornale, prima di cena, e si senta dire che l’epidemia si diffonde, il numero dei morti cresce, ed i casi non sono più limitati alla zona d’origine, ma dei contagi ci sono già stati a New York. Primo avviso: non andate in Messico, e neanche negli Stati Uniti, “se non è indispensabile”. Facile. Ma mica tanto, visto che il mondo s’è fatto piccolo e capita d’incontrare persone appena sbarcate. Poi ti dicono che un caso c’è già a Madrid, e dato che sono passate poche ore dall’inizio, ne deduci che l’epidemia viaggia a velocità inquietante. Secondo avviso cautelare: non frequentate luoghi affollati. In che senso? A parte il bagno di casa propria, la gran parte dei posti dove si passa la giornata sono affollati. Posso non andare al cinema, ma come faccio a non prendere l’autobus? Siccome lo spettacolo ha le sue regole, ecco che cominciano a girare immagini suggestive, c ome quei due che si baciano indossando la mascherina. Non oso immaginare come s’è poi evoluta la loro serata. Non viaggiare, non frequentarsi, non baciarsi. Accidenti, siamo proprio nei guai. Ed è il momento delle dichiarazioni ufficiali. Il presidente Obama segue personalmente la situazione, e, forse, vorrà dire che misura la febbre alle figlie. L’influenza dei maiali è “causa di preoccupazione” per l’America, ma “non c’è ragione d’allarme”. Decidetevi: ci dobbiamo preoccupare o no? In Italia le autorità rispondono: no. Bene, grazie, ma, allora, di che stiamo parlando? Il giorno successivo, fortunatamente sopravvissuti ed ancora dotati d’appetito, prima della cena ci si rimette davanti allo stesso telegiornale. Apertura dedicata all’epidemia, sempre più micidiale. Mentre scrivo i morti sono 150. Tantissimi. Allora ci stanno raccontando balle, provano ad acquietarci e, invece stiamo viaggiando verso la catastrofe? Calma, i numeri sono belli perché precisi, ma non significano niente se non paragonati ad altri numeri. Occorrerebbe sapere quante persone muoiono, mediamente, e senza il contributo dei maiali, in quelle stesse zone, ogni giorno, e sarebbe bene dire quante ne muoiono quando arriva l’influenza. Il dato interessante non è il numero assoluto, ma lo scostamento dalla media. Se questo non è significativo, allora s’è solo scoperto che alcuni di quelli che s’ammalano passano poi al regno dei cieli. Roba sofisticata, insomma, nota fin dalla notte dei tempi. La paura, però, è difficile da contenere, quindi cerchiamo altre informazioni. Così scopriamo che, nelle nostre farmacie, ci sono almeno un paio di antivirali perfettamente in grado di non farti fare la fine del suino. Ciò significa che se quando ti viene la febbre vai da un medico, anziché a ballare, anche questa volta salverai la pellaccia. Non solo, ma potrai anche baciare senza usare precauzioni, sempre che altro non t’induca a desistere. Cribbio, ma detta così sembra la cosa più normale del mondo, ragion per la quale ci si fa sospettosi e l’occhio cade su una delle ultime notizie in circolazione: per ora bastano gli antivirali, ma potrà prepararsi il vaccino, benché il processo sia lungo e costoso. Alt, e no, questo è troppo. Mia nonna diceva: non approfittate di noi, che siam povera gente. Negli ultimi mesi abbiamo superato l’influenza degli uccelli e la pazzia della vacca. Ora ce la vediamo con i maiali. Mi fermo qui, questa sera rinuncio al telegiornale e riprendo in mano Boccaccio . La zuppa è, più o meno, quella, ma assai più divertente.

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Domenica 12 Aprile 2009

Testato presso i laboratori nipponici Sofie, il prototipo Ivalsa-Cnr: ha superato brillantemente la simulazione del terremoto di Kobe del 1995, costato la vita a seimila persone. Gli scienziati giapponesi: “Un giorno memorabile, cambia la tecnica di costruzione delle abitazioni”

(http://www.sxc.hu/profile/andrewatla)

“Ottimo lavoro, è un giorno memorabile, questo progetto italiano è destinato a cambiare il modo di costruire le case in tutto il mondo”.

Yoshimitsu Okada, tra i maggiori studiosi al mondo nel campo dei terremoti, è stato il primo a complimentarsi con il professor Ario Ceccotti, direttore dell’Istituto per la valorizzazione del legno e delle specie arboree del Consiglio nazionale delle ricerche (Ivalsa-Cnr), nonché ‘papà’ di Sofie. La casa di legno di sette piani e alta 23,5 metri, realizzata nei laboratori Ivalsa-Cnr di San Michele all’Adige (Trento) grazie ad un progetto di ricerca finanziato dalla Provincia autonoma di Trento, ha resistito con successo al test antisismico considerato dai giapponesi il più distruttivo per le opere civili: la simulazione del terremoto di Kobe.

Mai prima d’ora al mondo una struttura interamente di legno aveva resistito ad una simile forza d’urto, se si fa eccezione per la ‘sorella minore’ di Sofie a tre piani, che nel luglio 2006 aveva già superato i severi test giapponesi.

L’esperimento ha avuto luogo alle 14.30 ora locale (7.30 italiane), presso l’Istituto nazionale di ricerca di scienze terrestri e prevenzione disastri di Miki in Giappone.

“Abbiamo lavorato in Italia”, spiega Ario Ceccotti, “tenendo presente gli standard giapponesi per un prodotto globale, perché siamo convinti che la ricerca applicata non possa che essere apertura verso il mondo, così come una buona idea non conosce confini”.

Il test è il risultato finale di studi e ricerche durate cinque anni, che hanno individuato nella combinazione di materiali e connessioni meccaniche del prodotto la tecnica costruttiva ideale contro i terremoti. Un’ipotesi inconcepibile fino a qualche tempo fa, se si pensa che le normative internazionali vietano le costruzioni di legno in zona sismica sopra i 7,5 metri di altezza. Almeno fino ad oggi.

Commenta l’assessore alla ricerca, programmazione e innovazione della Provincia di Trento, Gianluca Salvatori: “Il risultato ottenuto rappresenta per noi un punto di arrivo e allo stesso tempo di partenza. E’ un punto di arrivo in quanto brillante conclusione di un progetto di ricerca avanzata su un bene materiale, la casa, che tutti consideriamo tra i più importanti. Siamo stati in grado di invertire l’idea secondo cui non è possibile costruire case di legno in zone sismiche, con una tecnologia e un livello di sicurezza molto alti. In questo senso consideriamo i test di Miki il punto di partenza perché le persone possano beneficiare di questa innovazione”.

La tecnologia della casa Sofie (Sistema Costruttivo Fiemme: questo il nome del progetto) nasce da un forte legame con il territorio del Trentino ed è il prodotto di una filiera – dal bosco alla casa di legno – che sta incontrando l’interesse di molte aziende. E che dimostra definitivamente l’assoluta affidabilità e sicurezza del legno come materiale per l’edilizia, oltre al valore aggiunto in termini di comfort abitativo, economicità, risparmio energetico e rispetto per l’ambiente. Un nuovo modello di abitazione con standard certificati e in grado di garantire sicurezza: la casa di legno Ivalsa-Cnr infatti è anche anti-incendio e il modello di tre piani, dopo oltre un’ora di test del fuoco, ha conservato ancora intatte le sue proprietà meccaniche e inalterata la sua struttura.

A Miki, dopo la tragedia di Kobe (nel 1995 la terrà tremò per quasi 30 secondi, provocando quasi seimila morti), il governo giapponese ha realizzato il principale centro di sperimentazione antisismico del mondo, dove dal 2004 vengono testati centinaia di prototipi di abitazioni, ponti, palazzine e opere civili e industriali.

La lista d’attesa per accedere all’E-Defence (questo il nome del laboratorio) e ottenere l’unica certificazione antisismica riconosciuta in tutto il mondo, dura anni: il prossimo anno la Colorado State University testerà una casa di legno di sei piani, ma questa volta gli italiani hanno battuto sul tempo e in altezza gli americani.

E oggi, il professor John van de Lindt (capofila del progetto Usa) e Steve Pryor, dirigente di una multinazionale del settore edilizio, erano seduti in prima fila ad assistere al test della palazzina di legno italiana insieme con ricercatori e imprenditori di tutto il mondo: Stati Uniti, Canada, Colombia, India, Nuova Zelanda, Germania, Vietnam, Korea e Slovenia.

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Climatologia

E’ stata approvata la mozione di 34 senatori del Popolo della Libertà: la politica si avvicina al mondo scientifico della climatologia
Il catastrofismo climatico è sempre più delirante, contagioso e assolutista. Dal parlamento Italiano arriva un importante segnale di svolta che esalta la scienza
Il governo Italiano si impegna a considerare la crescente opposizione del mondo scientifico alla teoria del riscaldamento climatico di origine antropica
a cura di Peppe Caridi
 

Un vero e proprio terremoto sta scuotendo il mondo politico e anche quello scientifico (che maggiormente ci interessa), a seguito dell’approvazione del Senato Italiano di una mozione firmata da 34 parlamentari del Popolo della Libertà.

La mozione impegna il governo ad analizzare la questione climatica in modo approfondito, senza limitarsi a quei dogmi ideologici che oggi vanno tanto di moda e considerando anche quella congrua parte di scienziati che non reputa influente l’attività dell’uomo nella determinazione del cambiamento climatico in atto.

Per capire bene cosa sta accadendo in questi giorni, dobbiamo innanzitutto fare un passo indietro e individuare le origini e le cause che hanno portato il dibattito scientifico e meteorologico nelle varie riunioni dei potenti del mondo e nei parlamenti di tutto il pianeta.

Innanzitutto va fatta una precisazione: a prescindere dagli schieramenti politici, dalle ideologie e dalle bandiere più o meno di partito, è importante mantenere viva la nostra attenzione sul rapporto tra politica, economia e scienza: con l’approvazione della mozione (di cui parleremo in modo approfondito tra poco) da parte del Senato Italiano si può aprire una nuova stagione in cui il rapporto tra la politica e la climatologia sarà molto più serio, scientifico e professionale rispetto alle scandalose, vergognose e imbarazzanti prese di posizione di alcuni esponenti politici, più o meno di tutti i Paesi del mondo e più o meno di tutti gli schieramenti, che negli ultimi anni hanno dipinto scenari sempre più catastrofici e poi mai verificatisi.

  • ’Global Warming’ e ’Cambiamenti Climatici’: la moda allarmista e catastrofista che terrorizza il pianeta da trent’anni
    Non c’è bisogno di tirare in ballo gli ’anziani’: tutti gli adulti che ci leggono ricorderanno come e quanto, negli anni ’70, i mass-media Italiani e di tutto il mondo strombazzavano giorno dopo giorno continui allarmismi su un’imminente era glaciale. Non si parlava di “global cooling” solo perchè ancora la lingua Inglese non faceva così ’figo’ come oggi, e “raffreddamento mondiale” era troppo lungo, serioso e difficile da far capire alla gente. “Era glaciale” rendeva meglio l’idea: ne parlavano tutti, dai salotti politici ai bar e alle piazze delle varie città, da nord a sud, dall’America all’Asia. Le temperature globali erano diminuite nei 25 anni precedenti, nonostante il boom proprio in quella fase delle emissioni di anidride carbonica dovute al fervore economico che nel dopoguerra interessò gran parte del pianeta. La popolazione mondiale, preoccupata e impaurita di un possibile predominio mondiale da parte del rigido gelo invernale e dai disagi provocati dalle nevicate che nei decenni successivi sarebbero state “talmente tanto abbondanti da diventare devastanti”, pensava a come affrontare la nuova era glaciale.
    In realtà, però, tutti questi catastrofismi esattamente opposti a quelli odierni sono stati smentiti nei decenni successivi da un nuovo aumento delle temperature che tra gli anni ’80 e gli anni ’90 ha provocato un’inversione di tendenza totale: gli stessi veggenti dell’era glaciale, sono diventati i nuovi totem dell’allarmismo ’global warming’ (sì, ormai l’inglese fa figo!) e dei ’cambiamenti climatici’: è un catastrofismo di cui siamo figli un pò tutti, giovani e vecchi. Non c’è giorno in cui non rischiamo di incappare in un articolo di giornale, o in un servizio televisivo che prevede la scomparsa dei ghiacci, l’innalzamento del livello dei mari, l’avanzata del deserto, la carenza di acqua e chi più ne ha più ne metta.
    Negli ultimi trent’anni abbiamo assistito ad un proliferare di catastrofisti mai visto prima: “Venezia sarà sommersa entro il 2005, vedrete! Bisogna assolutamente fare qualcosa per proteggerla” urlavano alcuni pseudo-scenziati tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90.
    Non ci risulta che il M.O.S.E. sia ancora stato realizzato, eppure siamo nel 2009 e Venezia è ancora lì, bella e ricca d’arte, storia e cultura come è sempre stata.“Sparirà la neve dalle nostre stazioni sciistiche, non potremo più praticare il turismo invernale, dimentichiamoci del freddo”: guarda caso proprio nell’inverno appena concluso, il 2008/2009, le Alpi hanno raggiunto (e in alcuni casi superato) il record storico di innevamento degli ultimi 120 anni che apparteneva all’inverno 1950/1951.

    “La Sicilia si sta desertificando, diventerà un piccolo Sahara nel cuore del Mediterraneo”: negli ultimi anni in tutta la Sicilia si sono quadruplicate le piogge e i giorni di pioggia, la vegetazione è lussureggiante, sempre più ricca di verde.

    Un anno fa, di questi tempi, sentivamo dire che “durante l’estate i ghiacci del Polo Nord si scioglieranno completamente”: mai poteva esserci allarme più infondato. Infatti non solo non s’è verificato ma addirittura i ghiacci dell’Artico hanno guadagnato spessore rispetto all’anno precedente. E nessuno parlava dell’Antartide, nel Polo Sud, che contemporaneamente raggiungeva il record di massima espansione della superficie ghiacciata.
    Potremmo continuare così fino a domani, ma penso possa bastare per rendere l’idea dell’assoluta infondatezza delle mode catastrofiste che negli ultimi dieci anni hanno dipinto scenari di distruzione e devastazione che poi la natura ha puntualmente smentito.

    Le deliranti previsioni catastrofiste, di cui Madre Natura si prende gioco, vi stanno divertendo?
    Volete sentirne altre?
    Va bene, ma solo le più recenti: vi ho già spiegato che potrei continuare fino a domani, e vorrei invece andare avanti e completare l’articolo.

    Comunque, parliamo allora di John Beddington, secondo cui “tra vent’anni ci sarà la fine del mondo per colpa dei cambiamenti climatici”.
    Beddington non è uno “scenziato” qualunque, ma il responsabile capo dello staff scientifico del governo britannico!!!
    Incredibile, ma vero!

    E perchè non citare chi ha previsto la “fine del turismo nel Mediterraneo a causa dell’avanzata verso nord del deserto del Sahara”? Uno scenario che si commenta da sè.
    Chiudiamo – e poi davvero, vi prego, lasciatemi continuare – con un riferimento a chi ha già previsto che la prossima estate sarà “calda e siccitosa, soprattutto al Sud dell’Europa, in Sicilia, così come in Nord Africa e nei Paesi del Medio Oriente: da Israele alla Siria. Ci saranno ondate di calore in tutti i maggiori centri urbani e sulla Sicilia”.
    Basterà attendere pochi mesi per capirne l’effettiva assurdità, a prescindere dal fatto che qualora davvero dovesse essere rispettato quel tipo di trend, significa che chi adesso s’è fregiato di questa ’sparata’ avrà avuto una gran bella botta di culo, visto e considerato che non esiste alcun metodo scientifico per realizzare delle previsioni del tempo a così lungo termine.
    Ma proseguiamo.

    Abbiamo dimostrato quanto il catastrofismo climatico sia delirante.
    Ma il problema vero, serio e importante è un altro: questo tipo di allarmismo non si limita a dirne di tutti i colori, ma ha la capacità di contagiare l’opinione pubblica, la popolazione civile e le alte sfere della politica e di esprimersi in forma assolutista, spesso in modo violento, insultando e offendendo tutti coloro che, timidamente, provano a contrapporsi con numeri, dati e ricerche scientifiche ai vari scenari di morte e distruzione dipinti ad arte.
    Ci viene in mente il recentissimo caso di Giampaolo Giuliani, tecnico geofisico che fa ricerca ai Laboratori nazionali del Gran Sasso e che da anni sostiene di aver elaborato un metodo in grado di prevedere l’arrivo degli eventi sismici.
    Giuliani lunedì mattina ha scatenato una vera e propria psicosi da terremoto in Abruzzo, tra L’Aquila e Sulmona, prevedendo l’imminenza di un violentissimo fenomeno sismico.
    Adesso è indagato per ’procurato allarme’: perchè non si prendono gli stessi provvedimenti per tutti i catastrofisti climatici? Procurano allarmi ancor più vasti e pericolosi, sugellando convinzioni assolutamente false nell’opinione pubblica di tutto il mondo.
    Il catastrofismo climatico ha contagiato un pò tutti. Ha contagiato il nuovo presidente degli Stati Uniti Barack Obama, e anche un’associazione naturalista molto importante e rispettabile come il Wwf che ha lanciato negli anni scorsi la campagna ’Stop Climate Change. Before it changes you’ (foto a corredo dell’articolo). Insomma, dovremmo stoppare i cambiamenti climatici prima che siano loro a modificare la nostra natura di esseri umani! Addirittura!

    Quello che sfugge un pò a tutti è che il fatto che il clima stia cambiando non è un male! Nel corso della storia, il clima non è mai stato statico, immobile e piatto. Dovremmo, piuttosto, iniziare a preoccuparci solo ed esclusivamente nel momento in cui ci accorgessimo che non avvengono più dei cambiamenti climatici e che nella nostra Terra rimane sempre tutto fermo e immobile.
    Nella storia ci sono sempre stati dei cambiamenti climatici, ancor prima della nascita delle industrie, delle bombolette spry e delle emissioni di anidride carbonica da parte degli esseri umani. Dei cicli, quindi, assolutamente naturali.
    Non solo: il delirio del catastrofismo moderno da un lato annuncia la presa di posizione per cui l’uomo non deve assolutamente intervenire nei processi naturali del nostro pianeta, e dall’altro vuole imporre di intervenire per modificare quelli che sono in atto!

  • I dubbi del mondo scientifico Il fatto che sia in atto, quindi, un cambiamento climatico non è negabile. Non è questa la questione: il clima è in continuo cambiamento, ed è giusto e naturale che sia così. Sono pochi i dubbi degli scenziati sul fatto che il pianeta si stia riscaldando. Anche se alcuni esperti hanno studiato in modo molto approfondito il rapporto tra l’urbanizzazione delle aree in cui sono presenti stazioni meteo e l’aumento di temperatura, dimostrando che in fondo alcuni dati sono falsati proprio dall’urbanizzazione delle aree territoriali (vedi esempio di New York, con le i grafici a corredo in coda al testo), dopotutto i dati satellitari, in alta quota sui rilievi, e i radiosondaggi confermano che il pianeta si sta riscaldando.
    Ma non lo sta facendo in modo così esagerato come alcuni strombazzano.
    E non lo sta facendo in modo continuato, ma piuttosto con cicli lenti e graduali intervallati da periodi in cui invece le temperature diminuiscono.
    Dopotutto l’Europa e un pò tutto l’emisfero settentrionale sta venendo fuori dalla famosa P.E.G., la Piccola Era Glaciale che tra 1.500 e 1.800 ha attanagliato, per tre secoli abbondanti, il territorio nel freddo e nella neve.
    E’ quindi normale che venendo fuori da questo tipo di fase climatica, le temperature aumentino.
    Deve essere chiaro che però tutti i cambiamenti climatici sono lenti, graduali, appena percepibili dagli esseri umani considerando la nostra vita media.
    La climatologia, a differenza della meteorologia, è una scienza che analizza quegli stessi parametri meteorologici (temperatura, umidità, venti, precipitazioni ecc. ecc.) però su larga scala geografica e in un ampio lasso temporale. Non si possono fare analisi climatologiche fossilizzandosi in analizi provinciali e territoriali, oppure di breve durata. Dopo la vergognosa brutta figura di gennaio, l’avrà capito anche Mario Tozzi!
    La domanda da porsi non è tanto, quindi, se le temperature stanno aumentando o meno. Potremmo farlo, perchè comunque neanche quello è scontato, se l’ambiente di discussione fosse più sereno, disteso, scientifico e meno interessato. Ma ci sono tanti altri luoghi comuni molto molto più gravi e pesanti da smentire. E allora la domanda da porsi è la seguente: i cambiamenti climatici in atto sono provocati dalle attività umane, o sono naturali?
    Assuefatti da una vita assolutamente cittadina, urbana e opulenta, la stragrande maggioranza dei personaggi del mondo politico e del potere pensa quasi che non esistano più luoghi selvaggi, verdi campi in cui correre e giocare in mezzo ai fiori, montagne disperse in cui l’uomo non ha mai messo piede, e lussuosi fondali marini ricchi di flora e fauna sana e pimpante.
    Sentono parlare del mare solo quando qualche incidente tra imbarcazioni ne fa affondare qualcuna, e di montagna solamente in occasioni di frane e valanghe: si convincono così che l’uomo sia il padrone del mondo, che tutto dipende dall’uomo e che l’uomo regoli, con la propria forza e la propria volontà, i meccanismi del pianeta.
    Gli scenziati, però, a prescindere dallo stile di vita che (generalizzazioni e forzature a parte) può essere più o meno simile a quello dei politici, sanno che la realtà è ben diversa perchè studiano.
    E studiando si scopre che in realtà solo il 2% della superficie terrestre è occupato da insediamenti urbani! Solo il 2%! Il 2%, per giunta, della superficie. Perchè se parlassimo, invece, del volume verremmo a scoprire che gli insediamenti urbani non riescono a superare lo 0,003% del volume del nostro pianeta!
    Chi può pensare che le attività di una così piccola e insignificante forza (l’essere umano) possano dettare i ritmi e i meccanismi dell’intero pianeta ?
    Molti scenziati, infatti, non credono che sia l’uomo a determinare i cambiamenti climatici.
    Basta pensare a quelli che la settimana scorsa si sono rivolti a Omaba: “”Mr President, sul clima ha torto”: 114 scienziati e premi Nobel di 13 nazioni differenti hanno voluto provare a spiegare al nuovo Presidente degli U.S.A. che non è assolutamente scontato che sia l’uomo a determinare i cambiamenti climatici in atto.
    Ma allora cos’è che determina il clima?
    Qui entra in ballo il sole: il sole ha un volume che è un milione, trecento tre mila e ottocento volte più grande di quello della terra (e quindi immaginate pensare quanti miliardi di volte sia più grande rispetto agli insediamenti urbani) e con i propri cicli di macchie solari può determinare il clima terrestre in modo molto più diretto di quanto non possano farlo le attività dell’uomo, appunto.
    Recenti studi astronomici hanno dimostrato che negli ultimi due secoli le temperature sono aumentate, così come sulla terra, anche in tutti gli altri pianeti del sistema solare: eppure su Marte, Giove, Venere e Saturno non esistono fabbriche che emettono sostanze nocive, a meno che non ci siano comunità di alieni progredite almeno quanto la nostra che non abbiamo ancora avuto la fortuna di scoprire.
    Questo studio, comunque, dà un’altra (ed è l’ennesima!) prova che il vero motore del clima del nostro pianeta è il Sole, che in realtà è molto di più: è il motore del clima dell’universo.
    Una realtà scientifica che molti scenziati stanno approfondendo, sostenendo e portando avanti. E che non può essere sottovalutata.
    Quando scrivevamo dell’assolutismo che appartiene ai catastrofisti climatici, infatti, ci riferivamo ad alcuni casi di “fascismo verde” come quello di George Will. Il fatto che nel mondo scientifico si fanno sempre più forti le teorie sulla scarsa influenza delle attività umane nel determinare i cambiamenti climatici non può che dare fastidio all’ambiente allarmista e catastrofista che delle “colpe” dell’uomo nei rapporti con il clima faceva, e ahimè fa ancora, un cavallo di battaglia quotidiano.
    Così tutti coloro che mettono in evidenza questo tipo di realtà scientifica vengono tacciati d’ignoranza e “oscurantismo”: insultati, offesi e criticati.
    E’ ciò che hanno dovuto subire i 34 firmatari Pdl della mozione poi approvata in Senato: gliene hanno dette di tutti i colori, come si può vedere dalle dure reazioni espresse subito dopo la presentazione della mozione, prima della discussione e del voto in aula, e quelle successive alla votazione.
    Addirittura Roberto Della Seta, capogruppo del Pd in Commissione Ambiente al Senato, ha tacciato il Pdl di “un negazionismo ridicolo, più o meno come scrivere nero su bianco in un atto parlamentare che Darwin diceva il falso” dimenticando che ai tempi di Darwin, Galileo Galilei e altri grandi scenziati precursori dello sviluppo culturale contemporaneo, la società li condannava al rogo e non riusciva a comprenderli: altro che “mettere nero su bianco”, si andava ben oltre.
    Oggi la situazione scientifico/culturale, altrettanto bigotta, dogmatica, ignorante e modaiola, sembra identica: senza documentarsi in modo approfondito, le masse seguono i punti di riferimento più alla moda (vedi Al Gore) e come tante pecorelle si convincono di quelle che non sono altro che amene falsità.
    Non ci dovremo sorprendere se quell’“eppur si muove” di Galileo Galilei venisse oggi parafrasato da qualche scenziato che si approccia alla climatologia con serietà nel momento in cui continuerà a serpeggiare la convinzione che sono gli esseri umani a dettare i ritmi della natura: “eppur non c’entriamo” potrebbe affermare prima di essere condannato al silenzio eterno.Anche la comunità scientifica Italiana è attiva nella lotta al catastrofismo climatico, a partire da alcuni dei più eminenti e professionali rappresentanti dell’Aeronautica Militare con il ClimateMonitor di Guido Guidi o anche con il nostro Presidente Onorario, Massimo Morico, che in tutti i nostri convegni ha sottolineato l’esagerazione del catastrofismo e l’incertezza sulle responsabilità dell’uomo nella determinazione dell’andamento climatico planetario.
  • Gli ultimi dieci anni e il fallimento del protocollo di KyotoSe il catastrofismo climatico non ha, comunque, ragione d’esistere e di riscuotere consensi, a maggior ragione visto l’andamento climatico degli ultimi dieci anni ci viene da pensare quanto siano forzate e in mala fede alcune strabilianti “uscite” di fantomatici “esperti” del settore.
    Dal 1998 al 2007, infatti, le temperature del pianeta sono rimaste mediamente stazionarie, secondo le analisi satellitatri della NASA. Addirittura dal dicembre 2007 ad oggi (è quindi ormai quasi un anno e mezzo) stanno lentamente diminuendo.
    Il pericolo ’desertificazione’ della Sicilia, che comunque non è mai stato realistico e concreto, è assolutamente smentito dai numerosissimi record idrici e pluviometrici che dal 2002 ad oggi si sono registrati non solo nell’Isola Sicula ma un pò in tutto il sud Italia, e viste le anomalie di surplus pluviometrici riscontrate negli ultimi anni nel deserto del Sahara non ci sarebbe da sorprendersi se tra qualche decennio, qualora continuasse quest’andazzo, le oasi desertiche siano sempre più ricche, popolate, fertili e numerose.Il Protocollo di Kyōto è un trattato internazionale in materia ambientale riguardante il riscaldamento globale che è stato sottoscritto nella città giapponese di Kyōto l’11 dicembre 1997, un anno esatto prima che le temperature del pianeta iniziassero a smettere di aumentare e, poi, dal 2007, addirittura a diminuire.
    Un occhio ingenuo potrebbe pensare che se le temperature non stanno più aumentando è merito di quel famoso e discusso protocollo.
    In realtà solo studiandolo si può innanzitutto capire che è entrato in vigore soltanto nel 2005, quando già da 7 anni le temperature non crescevano più, e poi soprattutto dev’essere chiaro che il Protocollo di Kyōto non prevede che ci sia un taglio complessivo delle emissioni di anidride carbonica! Assolutamente!
    L’India e la Cina, che hanno ratificato il protocollo, non sono tenute a ridurre le emissioni nel quadro del presente accordo, nonostante la loro popolazione: la Cina è il paese più popoloso del mondo con un miliardo e 350 milioni di abitanti. L’India è il secondo, con un miliardo e duecento milioni. Però, come altri paesi in via di sviluppo, sono stati esonerati dagli obblighi del protocollo di Kyōto perché non sarebbero stati tra i principali responsabili delle emissioni di gas serra durante il periodo di industrializzazione che si crede stia provocando oggi il cambiamento climatico! Cioè, è assurdo: non hanno “inquinato” prima, quindi adesso possono farlo! Ed è un’assurdità doppia, se pensiamo che non esiste alcuna prova scientifica che i cambiamenti climatici siano provocati dall’industrializzazione, anzi, ci sono prove che dimostrano il contrario!
    Il Protocollo di Kyōto ha un movente esclusivamente politico/economico, non certo ambientale: quella del ’terrore climatico’ è la copertura ideale per giustificare determinate scelte di politica economica.
    E’ chiaramente giustificabile la ’non adesione’ degli Stati Uniti d’America: per quale motivo avrebbero dovuto tirare il freno a mano della loro economia, consentendo a Cina e India di surclassarli nel mercato internazionale ?
    Se davvero chi ha ideato quel Protocollo era in buona fede, e pensava che le emissioni dovute alle attività umane provocassero il riscaldamento globale, avrebbe dovuto ratificare un progetto di diminuzione delle stesse emissioni senza differenze e discriminazioni tra un Paese e l’altro.

    Il 16 febbraio 2007 si è celebrato l’anniversario del secondo anno di adesione al protocollo di Kyōto, e lo stesso anno ricorre il decennale dalla sua stesura: adesso ci manca che fanno pure una festa, e siamo a posto!
    Sarebbe piuttosto ora di cestinare definitivamente quanto scritto a Kyōto e approcciarsi in modo diverso alla climatologia, con più scienza e meno politica.

  • La mozione del Pdl: cosa dice davvero. Una grande occasione per inaugurare una nuova stagione di serietà politica e di rispetto della scienza Proprio dalla politica, e dall’Italia (non può che essere motivo d’orgoglio nazionale!) sembra esserci un primo segnale di questa possibile svolta nell’approccio al tema climatico e scientifico, con i mezzi, gli strumenti e gli elementi della scienza e non dell’economia.Il Senato ha approvato una mozione firmata da 34 senatori del Popolo della Libertà: Riccardo Cascioli in un suo articolo pubblicato su Svipop che abbiamo voluto riportare li ringrazia uno a uno nel nome della scienza.E’ bene, innanzitutto, se si vuole commentare e giudicare la mozione, farsene un’idea leggendosela: qui il documento ufficiale.Nella mozione si legge che la Commissione Europea “dà per scontata l’attribuzione della responsabilità del riscaldamento globale in atto all’emissione dei gas serra antropogenici” e che invece il governo Italiano si impegna a “segnalare come una parte consistente e sempre più crescente di scienziati studiosi del clima non creda che la causa principale del peraltro modesto riscaldamento dell’atmosfera terrestre al suolo finora osservato (compreso fra 0,7 e 0,8°C) sia da attribuire prioritariamente ed esclusivamente all’anidride carbonica di emissione antropica; ad esempio, nella relazione di minoranza depositata l’11 dicembre 2008 presso la Commissione Ambiente e lavori pubblici del Senato degli Stati Uniti d’America sono riportate le dichiarazioni di ben 650 scienziati di livello internazionale, scettici nei confronti della teoria dell’attribuzione del riscaldamento globale in atto alle attività umane”.Inoltre, grazie all’approvazione di questa mozione, il governo si impegna anche a “sottolineare in merito come le previsioni climatologiche a lungo termine, attualmente effettuabili nei migliori centri di ricerca del mondo, siano ben lontane dall’essere affidabili, non essendo ancora sufficientemente conosciuti gli effetti climatici dovuti ad importanti elementi della fisica terrestre, quali ad esempio nuvole, vulcani, oceani, eccetera, nonché gli effetti climatici delle variazioni cosmiche e solari, e non essendo stati adeguatamente sperimentati gli estremamente complessi modelli di calcolo utilizzati per tali previsioni”.

    L’Italia sarà impegnata ancora per “rimarcare altresì come non sia ancora affatto chiarita la dipendenza della temperatura media dell’atmosfera terrestre al suolo dalla concentrazione dell’anidride carbonica nell’atmosfera (le analisi dei ghiacci antartici hanno dimostrato che nell’ultimo milione di anni la concentrazione dell’anidride carbonica nell’atmosfera ha seguito con ritardo di anni ed anni le variazioni di temperatura dell’atmosfera terrestre al suolo, è stata cioè effetto e non causa delle variazioni di tale temperatura); e come inoltre l’effetto serra dell’anidride carbonica sia già in rilevante saturazione alle attuali concentrazioni”.
    L’Italia chiederà quindi la revisione del Protocollo di Kyōto e proporrà la costituzione di “un centro d’eccellenza per l’approfondito dibattito scientifico in materia, che conforti o smentisca sulla fondatezza e sulla certezza della teoria del riscaldamento globale causato dall’uomo e sull’efficacia delle misure proposte in seno al Protocollo di Kyōto, in particolare con riferimento al rapporto costi/benefici e che costantemente aggiorni il dato scientifico ed i risultati della ricerca in tema di climatologia”.

    Che dire, se non Chapeau?

    Che l’Italia sia davvero il Paese portabandiera di un nuovo approccio scientifico e serio della politica internazionale al mondo della climatologia.
    Con la speranza che questo segnale non rimanga una piccola goccia in un oceano di … catastrofisti deliranti!

    di Peppe Caridihttp://www.meteoweb.it/

http://www.meteoweb.it/cgi/uploads/sezioni/1672/foto_appr1/manhattan.JPG

Un esempio concreto e scientifico che dimostra quanto il “global warming” sia limitato nelle aree urbanizzate. Nel grafico qui sopra vediamo l’andamento termico di New York Manhattan dal 1822 al 2000. La temperatura è aumentata di oltre 5°C in meno di due secoli! Se fosse questo l’andazzo mondiale, saremmo già tutti belli e cotti (o quasi). In realtà questo trend è influenzato dal fatto che a inizio ’800, quando è stata installata la stazione meteo a Manhattan, la realtà di quel territorio era ben differente da oggi. C’erano quasi esclusivamente campagne, alberi da frutto e prati verdi . Oggi, invece, solo cemento, metalli, asfalto e automobili. Così si spiega un aumento terimco che è assolutamente ristretto e limitato all’area urbanizzata.

http://www.meteoweb.it/cgi/uploads/sezioni/1672/foto_appr2/albany.JPG

Infatti in quest’altro grafico notiamo l’andamento termico di New York Albany: a meno di 50km da Manhattan, ad Albany è stato costruito l’aeroporto e quindi oggi sono ancora presenti quelle ampie distese di prati verdi che c’erano due secoli fa: vere e proprie praterie. La zona è rimasta rurale, e senza cemento, asfalto, grattacieli e automobili la temperatura è addirittura diminuita di alcuni decimi di grado, nello stesso lasso di tempo!!! Questo significa che i dati sul global warming sono fortemente influenzati dal fatto che moltissime stazioni meteo oggi sorgono in centri ad alta densità urbana, ma diversi decenni fa erano state installate in zone di campagna e rurali: l’aumento termico che indicano non è un aumento della temperatura atmosferica, ma un aumento estremamente localizzato e limitato. Basti pensare che mari, laghi e oceani occupano il 75% della superficie terrestre. Del restante 25%, solo il 2% è occupato da insediamenti urbani. In totale, quindi, le città, i centri urbani e le aree abitate del pianeta ricoprono lo 0,5% della superficie terrestre. A voi le conseguenze …

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