La pioggia di sangue
Se è all’inferno che sono destinato,
non preoccupatevi per me
che già ci sono stato!
Oggi ti vedo triste e preoccupata.
In silenzio ti osservo,
da quando sei entrata.
Gli occhi tristi, il mento sulle mani,
forse cerchi le parole per dirmi
che per me non c’è domani.
Per distrarti
Faccio anche il buffone.
Diventi rossa,
a stento trattieni il tuo magone.
Cosa ha oggi la mia nipote preferita?
Tu mi rispondi:
sono stanca della vita!
E’ giunta l’ora che non avrei voluto mai
di raccontarti una storia che non sai.
C’è un isola deserta
in mezzo al lare.
Io ne conosco il nome,
ma non ti dirò quale.
C’è un isola
Che ricorderò in eterno.
E’ l’isola del male.
E la chiamerò Inferno.
In fila indiana ci hanno accompagnati
con pugni e calci ci hanno massacrati.
Alzammo gli occhi per guardare i nemici.
Sbigottiti, scoprimmo che erano nostri amici.
Due file eran di uomini.
In mezzo dovevamo passare.
Gli ordini dicevano:
li dovete massacrare.
Molti di loro fingevano
troppi di loro godevano.
E non distingui più gli amici dai nemici.
Non si distingue più l’odio dall’amore.
Non bruciano il tuo corpo, ma il tuo onore.
Non è il tuo corpo a essere bruciato.
A vivere esso è condannato.
Non conosco le parole
per descrivere a te
la vita su quell’isola che non sai dov’è.
Ma se per caso un giorno
qualcuno parlerà,
un coraggioso più di me,
scoprirai dov’è e ci andrai.
Guarda il cielo e copriti.
Una pioggia di sangue
potrebbe bagnarti.
Una pioggia di sangue
sull’isola cadrà.
E se l’inferno voi volete visitare
è su quell’isola che dovete andare.
Passati sono orami tant’anni,
ma sono sicuro che
quando la bora soffia
porterà con sé,
più in alto che potrà,
una pioggia di sangue
che sull’isola cadrà.
E venne un giorno che a Fiume ritornai.
Cadavere vivente,
passavo tra la gente.
Questo per dire a te
che tu non puoi e non devi
stancarti della vita
a cui tanto tenevi.
Tutto quello che so
io non lo volli dire.
Andò in pezzi la mia anima
e tutto il mio ardire! –
Andrea Scano, maggio 1980 –
Andrea Scano scrive questa poesia per rispondere alla nipote Rina, che si è presa amorevolmente cura di lui per molti anni e che aveva detto di essere stanca della vita.
per chi volesse qualche altra notizia pubblico la recensione di ” Prigionieri del silenzio”, il libro di Pansa che narra dettagliatamente la vita di Andrea Scano
Giampaolo Pansa
Prigionieri del silenzio
recensione di Simone Rosti – 5 novembre 2004
Sono trascorsi quindici anni dalla caduta del Muro di Berlino e, nonostante il permanente muro culturale della sinistra, continuano ad affiorare verità sempre più atroci su ciò che il socialismo reale e le teorie marxiste hanno rappresentato. Assistiamo sempre più spesso ad un revisionismo leale e genuino, ossia a contributi storici prodotti in maniera assolutamente disinteressata, senza fini politici, con il solo scopo di riportare a galla eventi volutamente calati nell’oblio. E’ molto importante che questo lavoro, che rappresenta un bene enorme per il nostro paese (in quanto esprime un desiderio di verità, giustizia e libertà), sia sempre più fecondo e possa essere un orizzonte cultrale sul quale i ricercatori delle nuove generazioni possano cimentarsi senza ostracismi.
Ed è proprio ad un giovane studioso, Enrico Poggi, sardo come il protagonista del libro “Prigionieri del silenzio”, che si deve il primo documento analitico su Andrea Scano, il personaggio di cui si occupa Pansa. La tesi di laurea compilata dall’universitario è stata, tra l’altro, una fonte importante per lo stesso storico. E, proprio Giampaolo Pansa, è un grande sostenitore di questo nuovo modo di indagare la storia del Novecento. Insomma, parole sue, «non penso che il revisionismo sia una brutta strada», pertanto «penso ci sia molto da scrivere di nuovo sulla storia del secolo scorso. C’è campo libero d’indagine e bisogna che gli storici italiani – in genere bravi anche se qualche volta troppo faziosi – si diano da fare» (intervista rilasciata ad Avvenire, venerdì 8 ottobre 2004).
Ancora una volta, il giornalista de L’Espresso inizia un’indagine che lo porterà ad approfondire i crimini e le atrocità commesse da uomini diventati animali, grazie al male assoluto del comunismo. Una storia dentro la Storia. Una storia vera, di un comunista vero, costretto ad un silenzio moralmente assordante. E’ la vita di Andrea Scano, giovane scapestrato, nato a Santa Teresa di Gallura, in provincia di Sassari, nel 1911.
Come nel volume “Il Sangue dei vinti”, il giornalista piemontese utilizza un tecnica narrativa brillante. Attraverso due interlocutori immaginari (gli unici presenti nel tomo, il resto è tutta storia vera), un notaio di origini emiliane (il cui padre aveva conosciuto il giovane Scano) e un professore in pensione (sempre edotto da un genitore che aveva incontrato il sassarese), Giampaolo Pansa descrive la vita di Scano e le cornici (che spesso diventanto parte integrante del dipinto) storiche del Partito Comunista Italiano, dal 1930 alla metà degli anni settanta.
Il genio di Pansa si evidenzia in alcune osservazioni che sembrano trapelare stancamente dal testo. Frasi collocate apparentemente a casaccio, ma che mettono in luce un modo di scrivere la storia troppo raro in Italia. Dai riferimenti alla necessità di contestualizzare l’evento «la nostra bilancia di oggi non può essere usata per pesare i fatti di allora», senza mai giustificare niente e nessuno, all’ammissione di raccontare «di uno per parlare di tanti».
Andrea Scano fugge dalla sua terra natia, troppo stretta per un giovane ribelle, approdando in Francia e di lì si arruola nella Brigata Internazionale che, in Spagna, combatteva Francisco Franco. E’ qui che Scano si forma politicamente e, nonostante una licenza elementare in tasca, inizia a leggere i libri della rivoluzione, si trova in un idem sentire con i comandanti dei distaccamenti, beve dalle parole della criminale scienza marxista. Dopo la sconfitta spagnola passa diversi mesi nei campi d’internamento francesi da dove, su ordine dei compagni, torna in Italia per scontare la pena per esilio clandestino. Confinato a Ventotene negli ultimi anni del regime mussoliniano, Scano sembra immerso nella fede comunista e, dopo la fine del confino, approda a Genova, dove gli vengono affidate delle responsabilità operative nei Gap.
Alla fine della guerra, il giovane sardo si rifiuta di consegnare le armi. In questo contesto, la digressione di Pansa permette di riprendere la tesi già espressa ne “Il sangue dei vinti” e cioè che le armi non potevano essere deposte perché sarebbero servite per la seconda guerra civile, vale a dire per combattere i nemici del proletariato e instaurare il socialismo reale. E’ curioso riprendere una frase di un’intervista rilasciata dallo stesso autore a Mattia Feltri, per il quotidiano Libero dell’8 ottobre scorso, nella quale Pansa afferma che lui, giornalista e storico di sinistra, «non sono nato in una famiglia importante, non avevo santi in paradiso, eppure ho fatto la mia strada, in un paese libero. Questo grazie a quel sant’uomo di Alcide De Gasperi. La vera data della Liberazione non è il 25 aprile 1945, ma il 18 aprile 1948, quando De Gasperi vinse le elezioni».
Tornando al protagonista del libro, dopo essere stato denunciato per detenzione abusiva di armi, Scano riesce a fuggire a Trieste e da lì a raggiungere la Jugoslavia. Pansa è bravissimo a descrivere il sentimento dei comunisti italiani che aspiravano ad arrivare in Jugoslavia, soggiogata dal comunista Tito. Il sogno cioè, di chi, dominato e accecato da un’ideologia assassina desidera vedere i luoghi dove il socialismo reale è messo in pratica. Non solo essi rimarranno delusi, ma saranno – come nel caso di Scano – violentati fisicamente e moralmente fino ad essere annullati come esseri umani.
La digressione storica attorno alle vicende del comunista sardo sono altresì utili a comprendere in quale stato vivessero gli italiani (comunisti e non) sotto il giogo del regime jugoslavo e sotto il suo braccio armato, l’Ozna, la polizia politica titina, creata a immagine e somiglianza dell’Nkvd, la polizia segreta sovietica.
La rottura fra Tito e Stalin provocò un asprimissimo scontro fra i cosidetti cominternisti (i sostenitori dell’Unione Sovietica) e i titoisti. I comunisti italiani, sotto la spinta del Pci, crearono nelle città jugoslave cellule contro il regime del Maresciallo. Questa fu la loro condanna. Arrestati, interrogati e torturati, molti dissidenti (o supposti tali) con processi sommari (o addiritura per via amministrativa) furono rinchiusi nei gulag titini.
Tra questi, Pansa si sofferma nella rappresentazione di Goli Otok (o Isola Calva), uno fra i più tremendi, nel quale anche Scano passò tre infiniti anni della sua vita. Torture indescrivibili (fra le quali il cosiddetto boicottaggio), umiliazioni inenarrabili, azioni atroci volte unicamente ad annullare l’essere umano. Pansa le descrive tutte, con minuziosa semplicità, quasi incredulo nello scrivere ciò che, all’interno di quell’isola-lager, potesse accadere.
Scano, insieme a qualche altro connazionale, riesce ad uscire vivo (fisicamente) da quell’inferno, nel quale anche suicidarsi (una della massime aspirazioni di molti prigionieri) era impossibile. Come rileva Pansa, «a Goli Otok non era prevista l’eliminazione sistematica dei prigionieri, ma ciò che vi accadeva era più terribile della morte». Emblematica è la fine di un prigioniero che affilò un cucchiaino per tagliarsi la gola, ma era talmente debole che si fece solo un piccolo taglio e morì dissanguato.
Qui parte la storia ancor più drammatica delle atrocità che Scano (con i suoi compagni) dovette subire. Infatti, una volta giunto in Italia, fu ostracizzato dal Pci, il suo comportamento ritenuto rimprovevole, gli fu tolta la tessera del partito, in quanto ritenuto un traditore titoista. Infatti dal gulag di Goli Otok i prigionieri erano costretti a inviare cartoline ai familiari con scritte e slogan inneggianti al Maresciallo e, per tale motivo, ritenuti in patria traditori del partito.
Solo dopo qualche anno, Scano fu riammesso nel partito, con l’obbligo di non raccontare mai a nessuno cosa fosse successo in Jugoslavia. Ma questa è solo una breve sintesi del comportamento dei dirigenti del Pci italiano in quegli anni, da quelli locali fino a Secchia e Togliatti, tutti tesi a insabbiare verità connaturate al comunismo e, pertanto, troppo scomode da raccontare.
La beffa, per Scano e compagni, accadde nel 1955 quando Kruscev e Tito riallacciarono amichevolemente i rapporti. Pertanto, anche il Pci obbedì alla nuova linea e il silenzio imposto agli ex prigionieri dei gulag titini fu un imperativo inderogabile.
Insomma, la sorte di Scano (come di molti altri comunisti italiani) può essere sintetizzata in una frase detta a Pansa da una nipote del sardo, in riferimento alla fine della sua prigionia: «ad aiutarlo era stato un amico e non il Partito Comunista Italiano, il suo partito, per il quale era finito prima dentro il carcere e poi in un abisso di ferocia ed orrori».
Ancora una volta, Pansa porta alla ribalta del dibattico storico e culturale italiano una storia scomoda, sulla quale il Pci ha mantenuto e continua a mantenere il segreto, un universo di orrori e atrocità senza nessun mea culpa, senza alcuna ammissione.
Mi piace concludere con una frase testimoniata dalla mamma di uno dei compagni di sventura di Scano, un certo Bonelli: «sotto il fascismo ti hanno messo in galera, ma eri comunista e si può anche comprendere. Poi sei andato in un paese comunista, la Jugoslavia, e anche lì ti hanno messo in carcere. Adesso torni in Italia e i tuoi compagni, se potessero, ti manderebbero di nuovo in prigione. Si può sapere cosa si vuole da te? Non vi è al mondo gente più perfida dei comunisti».
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Simone Rosti |
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